lunedì 26 agosto 2013

disordine creativo (e produttivo)


Quante volte sentiamo elogiare l’ordine e in quante occasioni siamo portati (anche inconsapevolmente) ad associare l’immagine di una scrivania pulita e ordinata ad efficienza e professionalità. “Mostrami la tua scrivania e ti dirò chi sei!” tuona come una minaccia contro il popolo dei disordinati cronici, eppure recenti studi spezzano una lancia a favore di chi nel caos trova il proprio habitat naturale.

Studiando le scrivanie di oltre 10 aziende, Abigail Sellen degli Hewlett-Packard Laboratories di Bristol e Richard Harper del Digital World Research Centre della Surrey University (Regno Unito) hanno concluso che la propensione al lavoro e all’organizzazione di ciascun dipendente può essere rivelata dalla quantità di materiale presente sulla scrivania e nel cestino delle cartacce.
Il motivo è semplice: se da un lato una scrivania ricolma è generalmente correlata a maggiore disordine, dall’altro fare ordine richiede tempo, che viene in parte sottratto dalle ore di lavoro. Una buona produttività dovrebbe quindi dipendere da un corretto rapporto tra ore di lavoro e ore di ordine e pulizia. D’altra parte lo stesso Einstein scriveva: "Se una scrivania in disordine denota un spirito confusionario, che dire di una scrivania vuota?!"

Anche Eric Abrahamson, professore di management alla Columbia University, fa un elogio del disordine nel suo libro intitolato "A Perfect Mess: The Hidden Benefits of Disorder" (2008), nel quale sostiene che il disordine possa addirittura giovare alla carriera di un collaboratore all'interno di un'azienda: il disordinato impiega il 36% di tempo in meno rispetto ai colleghi a ritrovare i documenti di cui ha bisogno!
Nel suo La forza del disordine (Rizzoli), il professore americano elenca i sei vantaggi del “disordine ordinato”.:
1. Flessibilità: il disordine permette di adattarci rapidamente alle novità e con minori sforzi
2. Completezza: il disordine è vario, comprende più alternative e possibilità diverse, che l’ordine prestabilito non contempla
3. Risonanza: il disordine consente uno scambio di informazioni tra il soggetto e l’esterno, non rinchiude in certezze incrollabili che ci bloccano
4. Inventiva: il disordine consente di affiancare in modo casuale elementi diversi favorendo così associazioni inedite e creative
5. Efficienza: il disordine permette di raggiungere gli obiettivi in minor tempo e consumando meno risorse, se non altro quelle necessarie a riordinare e catalogare cose e informazioni
6. Robustezza: il disordine è soggettivo e come tale unico: ognuno ha il suo (mentre l’ordine è logico e quindi riproducibile da chiunque)

In realtà infatti, contrariamente a quanto potremmo pensare, il disordine non equivale necessariamente a caos puro, ma semplicemente ad un diverso modo di disporre gli oggetti all’interno del proprio spazio vitale. Come sottolinea Davide Dettore, professore associato di Psicologia clinica all’Università di Firenze, alla base del disordine c’è una particolare tipologia di classificazione inconscia degli oggetti che si fonda su un metodo “stratigrafico”. In pratica, senza nessuno che riordini, documenti e oggetti si accumulano, ma mai casualmente: i meno urgenti o meno necessari finiscono con lo sprofondare sotto cumuli di carte o negli angoli più nascosti, mentre verso la superficie o nei luoghi più accessibili si depositano gli oggetti attuali o i documenti più urgenti: un metodo di archiviazione spontaneo, personale e molto più efficiente di file, faldoni e cartelle!

Il caos, quindi, non è necessariamente segno di una mente disordinata, anzi, può essere produttivo, anche perché è proprio questo ordine nel disordine a rendere creativi. Quella dei disordinati è una logica creativa che gioca sulle associazioni, sui raggruppamenti, sulla memoria visiva e su associazioni di idee che possono sfociare anche in grandi innovazioni: una su tutte quella del Dottor Alexander Fleming, che ha scoperto la penicillina grazie al disordine del suo laboratorio!

Non solo la produttività, ma anche la creatività e la serendipità (la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un'altra) sono favorite da un ambiente disordinato e spesso le idee più brillanti emergono da un disordine controllato. L'ispirazione nasce dove meno ce lo si aspetta, dietro un foglio accumulato su una scrivania, proprio quello che avresti “dovuto” riordinare tanto tempo fa…

venerdì 24 maggio 2013

ciclo di vita della coppia



Perché molte relazioni si presentano come problematiche? difficoltose? deludenti? Perché si parla di “crisi della coppia”, di fine dell’amore?

Uno dei motivi principali è che, spesso, le unioni vengono idealizzate e concepite come qualcosa di statico, da preservare identico nel corso degli anni, quando invece ogni relazione comporta inevitabilmente l’innescarsi di un processo, di un rapporto che cambia nel tempo. Ogni coppia, infatti, racchiude in sé diverse fasi che ne compongono il ciclo evolutivo.

Di conseguenza, ad ogni stadio subentrerà un cambiamento nel modo di relazionarsi e la necessità di trovare un nuovo equilibrio, attraverso una rielaborazione di ruoli, regole e relazioni affettive.

Per quanto riguarda gli stadi del ciclo vitale della coppia, il primo è sicuramente quello dell’innamoramento, ovvero una fase caratterizzata da una forte idealizzazione del partner. In questa fase si crea una vera e propria simbiosi fra le parti, in quanto si percepiscono solo i pregi e le somiglianze, attribuendo all’altro la capacità di soddisfare i nostri bisogni e aspirazioni. Il partner viene visto come colui/colei in grado di realizzare i nostri desideri più profondi, di trasformare i nostri sogni in realtà.

Generalmente alla fase dell’innamoramento segue quella della delusione, in quanto ci si accorge che l’altro non corrisponde alla figura idealizzata durante l’innamoramento. Questa è la fase dell’individuazione, ovvero un processo di differenziazione che ha per obiettivo lo sviluppo della personalità individuale. Emergono le differenze e le divergenze fra sé ed il proprio partner e questa realizzazione ha solitamente un duplice risvolto: da una parte la delusione, dall’altra la possibilità di conoscere ed apprezzare l’altra persona per quello che è, nella sua unicità.

Questo processo di individuazione e di momentanea distanza in cui si comincia a pensare individualmente è fondamentale per giungere al riavvicinamento: il legame simbiotico iniziale lascia spazio all’ interdipendenza, fase in cui due persone indipendenti sono capaci di relazionarsi, di discutere i contenuti senza giudicare la persona, di risolvere i conflitti insieme.

Numerosi fattori contribuiscono al successo di un’unione: sicuramente una scelta accurata del partner, ma anche il tipo di relazione con la famiglia di origine, avere delle aspettative realizzabili, nonché la propria capacità di affrontare e risolvere i conflitti.

Le difficoltà iniziano quando uno dei due non è pronto per questo passaggio e considera il cambiamento un pericolo, anziché come parte del naturale processo evolutivo. A volte i partner si preoccupano solo che la loro relazione non cambi, non si spezzi, piuttosto che affrontare eventuali conflitti e l’inevitabile evoluzione del rapporto, mentre invece è fondamentale abituarsi all’idea che ogni fase di sviluppo comporta crisi che sono tipiche e assolutamente normali, ed è proprio la capacità di superarle che mantiene viva l’unione.

Non è infatti l’emergere delle crisi che è problematico, ma il cercare di evitarle: ne sono esempio quelle unioni in cui (apparentemente) va tutto bene, dove non si litiga mai, ma che poi all’improvviso si sgretolano e finiscono da un momento all’altro. Quando l’evoluzione non riesce a completarsi, possono insorgere problematiche più o meno profonde, fino alla rottura del rapporto.

La coppia, quindi, non è un processo dove due persone diventano una, ma è la capacità di entrare in intimità con l’altro, rispettandone l’unicità e l’identità personale: 1 + 1 = 2 persone che scelgono di stare insieme, rispettandosi e valorizzandosi reciprocamente.

Articolo di Camilla Targher www.camillatargher.it 

martedì 26 marzo 2013

multitasking: sì o no?


Con il termine multitasking si indica la capacità di lavorare contemporaneamente su più fronti, passando in continuazione da un’attività all’altra. E’ un termine mutuato dalla terminologia informatica, ovvero la capacità dei processori di eseguire più programmi in contemporanea, e che oggi viene sempre più frequentemente usato per indicare un’abilità spendibile sul lavoro, che si concretizza nel riuscire a gestire più cose alla volta.

Ma davvero scrivere un’e-mail, mentre si parla al telefono, tenendo d’occhio Skype e i social network, rispondendo a quello che ci chiede il collega, aumenta la produttività?!? In realtà recenti ricerche di neuroscienza hanno dimostrato che il multitasking peggiora progressivamente le performance del cervello, che nel passare in continuazione da una cosa all’altra perde in lucidità, organizzazione e memoria.

Quale cliente dovevo chiamare? Mi sono dimenticata dell’incontro delle 11! Dove ho messo quel documento? Ci capita spesso di scordarci le cose e quali sono quelle che dimentichiamo? Quelle che ci vengono richieste mentre la nostra attenzione è focalizzata altrove.
Devo rispondere alla mail, al telefono, alla conversazione su Skype, al fax, al cliente, al Capo, al collega… Non si riescono più a definire e a distinguere le priorità, tutto diventa urgente, facciamo mille cose e a fine giornata l’impressione è quella di non aver mai fatto abbastanza.

E’ stato scientificamente dimostrato che il cervello non può passare da un’attività all’altra senza perdere tempo prezioso, in quanto nel passaggio da un concetto all’altro impieghiamo il quadruplo di tempo a rifocalizzare l’attenzione.
In questo modo è molto più facile commettere errori, inoltre ciò che impariamo durante un’attività in multitasking viene trattenuto dalla nostra memoria a lungo termine molto meno tempo rispetto a quando apprendiamo con calma, costringendoci di conseguenza a dover imparare più volte le stesse cose.

E’ stato calcolato che le più comuni interruzioni sul lavoro (telefono, e-mail e interruzioni da parte di colleghi) fanno perdere in media 2,1 ore di produttività al giorno. Il cervello, infatti, non è in grado di pensare due cose alla volta: saltare in continuazione da un’attività all’altra comporta dei “costi di transizione” in termini di concentrazione e di tempo perso per ricostruire il nesso logico.

Il multitasking per certi versi è intrinseco al lavoro frenetico dei nostri tempi, ma fortunatamente ci sono modi per salvaguardarsi dalle interruzioni e non diventare vittime del multitasking selvaggio. Eccone alcuni:

  • No instant messaging, ci impedisce di portare a termine un lavoro senza essere interrotti
  • No smartphone, annulla le nostre aree di irreperibilità
  • Svolgere le attività più impegnative al mattino, quando siamo più freschi e riposati
  • Pianificare il lavoro su più giorni, distinguendo fra attività urgenti e programmabili
  • Limitare le telefonate, ove possibile, a determinate fasce orarie (ad es. dopo le 15.00)
  • Pausa schermo, staccare l’attenzione dal computer almeno ogni tre ore
  • Togliere l’avviso sonoro che segnala la posta in entrata e controllare la posta elettronica 4 volte al giorno
  • Contribuire a migliorare l’organizzazione aziendale, la disorganizzazione è contagiosa…
Il nostro cervello per operare al massimo delle proprie potenzialità ha bisogno di concentrazione, il multitasking, invece, ne riduce la capacità di attenzione e di memoria. Lo smartphone, la posta elettronica, il fax, le chat, gli sms possono snellire il lavoro, a patto che non siano loro a dettare i nostri tempi: ci possono rendere più appagati e produttivi solo se decidiamo noi come utilizzarli, in base ai nostri tempi ed alle nostre necessità.

martedì 19 febbraio 2013

pause e produttività


Pause e produttività: un dilemma che attanaglia spesso i datori di lavoro. Le pause sono sacrosante e fra l’altro obbligatorie per legge, ma quanto incidono realmente sulla produttività dei lavoratori? La tradizionale pausa sigaretta e la pausa caffé al distributore, oltre al sempre più attuale utilizzo dei social network, sono davvero una delle ragioni del calo di produttività all’interno delle aziende?

In particolare i social network negli ultimi anni hanno raggiunto il top della black list dell’improduttività aziendale, guardati con sospetto in alcuni luoghi di lavoro fino ad arrivare ad essere vietati in alcune aziende o pubbliche amministrazioni.

Soluzione drastica ma plausibile, se è vero, come evidenziano le ultime ricerche in merito, che circa la metà dei dipendenti aziendali utilizza almeno un’ora al giorno per navigare in Internet, controllare la posta elettronica (quella personale) e connettersi sui social. E’ stato addirittura stimato che solo in Italia vengono perse in questo modo un totale di 31 milioni di ore lavorative all’anno, per un costo pari a 500 milioni di Euro!

Nonostante questi dati poco rassicuranti, ci sono altre correnti di pensiero che non puntano il dito sulle pause ma semplicemente sul loro utilizzo indiscriminato. La pausa, infatti, ha molte proprietà benefiche: rilassa, alleggerisce la mente e predispone al lavoro. E’ stato infatti dimostrato che concedersi una pausa di 10 minuti per navigare liberamente in Internet prima di concentrarsi in una nuova attività, libera la mente e rende più produttivi.

La pausa, quindi, non è nociva, ma dannoso è l’utilizzo che a volte se ne fa: se navigare in Internet e controllare la posta ed il proprio profilo Facebook vengono fatti costantemente e indiscriminatamente (tanto, ci vuole solo un attimo, poi si torna a lavorare...) il rischio è quello di appesantire il cervello costringendolo a troppi input simultanei, ma è anche e soprattutto quello di perdere la reale cognizione del tempo, perché in questo genere di attività è facile “perdersi” e trasformare il famoso attimo in pause ben più lunghe.

Così come è possibile organizzare il proprio lavoro, al tempo stesso è possibile organizzare anche le pause, ad esempio controllando la posta solo fra un’attività e l’altra o navigando alcuni minuti in Internet per rilassarsi solo prima di cominciare un’attività che richiede impegno ed attenzione. La pausa così strutturata è funzionale alla concentrazione e al rilassamento; viceversa il suo “abuso”, ovvero le interruzioni costanti e prolungate, nuocciono all’azienda (calo di produttività) ma anche al singolo (affaticamento da multitasking).

martedì 8 gennaio 2013

ignorant brainstorming


C’è una modalità alternativa e creativa di lavoro che sto utilizzando ultimamente e che può essere definita con il bizzarro nome di ignorant brainstorming, ovvero “tempesta cerebrale ignorante ”.

Il brainstorming (dall’inglese brain = 'cervello' e storm = 'tempesta'), è una tecnica di creatività utilizzata per fare emergere nuove idee volte alla risoluzione di un problema all’interno di un gruppo. In campo aziendale, viene spesso utilizzata per il marketing e lo sviluppo di nuovi prodotti, per risolvere un problema, per la gestione di un progetto e per rafforzare lo spirito di gruppo e la collaborazione.

Consiste nel proporre e far fluire liberamente soluzioni di ogni tipo (anche apparentemente bizzarre) senza che esse vengano criticate o censurate. La critica ed eventuale selezione delle idee migliori interviene solo in un secondo momento, terminata la seduta di brainstorming. Questo presuppone che le persone in questione lavorino su di uno stesso progetto o abbiano comunque delle competenze in qualche modo attinenti con l’oggetto della discussione.

L’ignorant brainstorming, al contrario, presuppone che su una determinata idea venga interpellata una o più persone che hanno nulla o poco a che vedere con l’argomento in questione. Viene ad esempio utilizzato in campo musicale: un autore/musicista fa ascoltare un nuovo brano a persone che non c’entrano nulla con la musica, ma che potrebbero essere possibili acquirenti di un CD. Questo per capire se il pezzo piace oppure no.

Reputo l’ignorant brainstorming particolarmente importante in quanto, senza nulla togliere alla iperspecializzazione, fondamentale in qualsiasi campo, ritengo che a volte conoscere troppo dettagliatamente il proprio campo di azione finisca per farci concentrare troppo sul particolare, a scapito di una visione allargata d’insieme, e rischia anche di farci scegliere dei linguaggi e codici comunicativi troppo specifici, che però renderebbero l’argomento eccessivamente complesso per i non addetti ai lavori.

Io ad esempio utilizzo l’ignorant brainstorming  quando scrivo un nuovo corso di formazione. Una volta terminate le slide lo faccio volutamente vedere a chi di formazione capisce poco o nulla: se il significato dell’argomento viene colto al volo, so che il mio corso funziona; se chi lo legge appare dubbioso, so che devo semplificarlo per renderlo più fruibile.

I campi di applicazione sono innumerevoli e non necessariamente relegati al contesto lavorativo: a volte un bambino può darci il consiglio migliore su come decorare la casa, o qualcuno che detesta cucinare può però amare un ingrediente particolare che aggiunto alla nostra ricetta la renderebbe molto più appetitosa, o una persona che abbiamo appena incontrato può darci consigli sull’amore molto più azzeccati di chi ci conosce da una vita.

Non esistono limiti di applicazione al brainstorming e all’ignorant brainstorming: è un metodo rapido, economico e divertente per trovare “soluzioni nuove” ai “soliti problemi: possiamo avere tutti qualcosa di interessante da trasmettere, anche se siamo ignorant! ;-)