Nei giorni scorsi ho letto alcuni
dati che mi hanno fatto riflettere. Nel 2011 il fatturato del mercato legale
del gioco in Italia è stato pari a 79,9
miliardi di euro (senza contare altri 10
miliardi di euro circa di fatturato illegale). Una cifra importante, che vede l’Italia
al primo posto in Europa e al terzo nel mondo tra i Paesi che giocano di più, un Paese nel quale in media ogni persona (neonati
compresi) spende 1260 euro all’anno
nel gioco.
Un fatturato che è 16 volte superiore a quello di Las
Vegas ed è destinato a raggiungere gli 80 miliardi stimati nel 2012 grazie alle
400mila slot machines presenti nel nostro Paese, cioè una “macchinetta mangiasoldi" ogni 150 abitanti. Siamo circondati da giochi a risultato in tempo
reale: bar, tabaccherie, perfino le aree di servizio in autostrada ti
propinano giochi a vincita immediata. Non riesci più a berti un caffé in santa
pace, senza che il barista di turno provi a rifilarti un gratta e vinci. “No
grazie, voglio solo un caffé” è la mia risposta, ma basta fermarsi in
prossimità della cassa per alcuni minuti per osservare come tante altre
persone, insieme al caffé, acquistino uno, due, cinque, dieci biglietti (con
conseguenti facce lunghe per non aver vinto nulla… neanche stavolta!).
La crisi aumenta, le aziende chiudono, ma
l’industria del gioco non conosce rallentamenti, anzi con la crisi cresce. Sono già 5000 le aziende attive nel settore, con
un’ampia offerta di tipi di gioco: dai nuovi Win for Life alle slot machines, dai video poker alle scommesse, senza contare il boom inarrestabile dei giochi on-line.
Una diffusa tendenza al gioco di
fatto sostenuta anche dalla pubblicità, che invece che evidenziarne le reali
conseguenze, prospetta facili quanto improbabili rivincite sociali, alleggerendosi
la coscienza con un semplice invito a “giocare responsabilmente” a fine messaggio.
Le conseguenze vere, però, sono
altre: 800.000 sono le persone con forme di dipendenza da gioco d’azzardo e quasi due milioni i giocatori a rischio. Sì
perché il gioco d’azzardo è una vera e propria malattia, anche se in Italia la dipendenza dal gioco non è
ancora considerata una patologia a tutti gli effetti (nonostante ammalarsi
costi allo Stato circa 38.000 euro l'anno per ogni giocatore patologico), ma in
realtà andrebbe curata come qualsiasi forma di dipendenza, pericolosa
proprio per la facilità di ricaduta.
Sicuramente il clima
generalizzato di incertezza e di sfiducia può portare a credere che rimboccarsi
le maniche per migliorare il proprio status non sia sufficiente e sicuramente
non lo è, ma è comunque necessario e indispensabile se non vogliamo che sia
il caso a governare le nostre vite, a
decidere da un giorno all’altro se dobbiamo essere tristi oppure felici. La
felicità (e i soldi) si conquistano un passo alla volta, con tenacia e con
costanza nel tempo, e se è vero che non abbiamo molte certezze una cosa almeno
è sicura: se consideriamo il gioco come l’unica possibilità di
riscatto per una vita migliore, abbiamo perso in partenza.