Viviamo in quella che viene definita la “società della conoscenza”: una società che pone la conoscenza alla base del suo stesso essere e fonda la propria crescita e competitività sul sapere, la ricerca e l’innovazione. Una società che produce conoscenza in ogni campo e che considera il “know how” la risorsa strategica, il vero motore del proprio sviluppo.
In un simile contesto tenersi al passo con i tempi non è un’optional ma una necessità. In una società in rapido e costante mutamento, infatti, quanto è valido oggi potrebbe risultare obsoleto domani. Se una volta erano sufficienti le scuole elementari per ritenersi istruiti, ora quasi tutti portano a termine gli studi superiori. Mentre un tempo bastava saper scrivere e far un po’ di conto per essere alfabetizzati, ora è necessario conoscere anche una lingua straniera, in particolare l’inglese, e saper utilizzare le principali tecnologie informatiche.
I radicali processi di cambiamento sociale, lavorativo e culturale che interessano la nostra contemporaneità, determinano nuove necessità e nuove richieste di formazione e di apprendimento che si specificano come continue e permanenti durante tutto l’arco di vita, coinvolgendo persone di diverse fasce di età e con esperienze culturali e professionali differenti fra loro.
La cosiddetta “società della conoscenza” occupa anche le priorità della Comunità Europea in termini di piani e di programmi per lo sviluppo. L’Unione Europea, infatti, si è data come obiettivo prioritario quello di portare l’Europa ad essere l’area del mondo più avanzata sul piano della conoscenza, trasformandosi in una “knowledge based society”.
Cambiano i codici, i linguaggi e il loro utilizzo e basta fermarsi anche per poco per ritrovarsi improvvisamente out, incapaci di cogliere pienamente i mutamenti che avvengono intorno a noi. Tutto quello che a fatica abbiamo imparato sui banchi di scuola e in anni di lavoro in azienda, non ci garantisce più quella base di “sapere” alla quale attingere per trovare una risposta ad ogni nuova sfida.
In una simile società l’errore più comune è adagiarsi sulle proprie conoscenze, credendo di essere qualificati a vita. Ritenersi arrivati è il maggior ostacolo all’apprendimento e al cambiamento e solo la nostra capacità di trasformarci e il nostro aggiornamento costante, in termini di conoscenze e abilità, possono consolidare il nostro presente e aprirci le porte del futuro.
Questo è ancora più evidente nel contesto socio-economico attuale, che evidenzia nella sua drammaticità il fatto che “società della conoscenza” non sia sinonimo di sicurezza o prosperità. Questa ultima crisi ci ha messi a dura prova e chi di noi ha ancora un lavoro può ritenersi fortunato. Chi ne ha fatto le spese? Sicuramente chi era meno qualificato, meno al passo con i tempi, o chi aveva smesso da tempo di imparare. Una qualifica non è più per la vita. Così come un lavoro non è più per la vita. E chi oggi si ritrova senza lavoro può sperare di riottenerlo solo riqualificandosi e aggiornando le proprie competenze, migliorandosi al tempo stesso come persona. Ecco perché diventa sempre più importante ragionare in un’ottica di apprendimento continuo o di formazione permanente, che non si limiti alla pura riqualificazione professionale, ma che abbracci l’intera vita dell’individuo, comprendendone anche la sfera personale, culturale e sociale, in un processo armonioso e bilanciato di crescita e maturazione.
In Italia c’è un argomento spesso poco affrontato, che si chiama
”analfabetismo di ritorno”: un fenomeno sempre più diffuso tra gli adulti, che con il tempo stanno perdendo le capacità di lettura e di scrittura un tempo acquisite. Secondo i dati emanati dall’istituto
CEDE (Centro Europeo dell’Educazione) questo fenomeno coinvolge il 5% della popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni.
Si definisce “analfabeta” chi non ha frequentato una scuola e non ha mai avuto la possibilità di imparare a leggere, scrivere o fare di conto. Si dice "analfabeta di ritorno" chi, pur avendo imparato a leggere e scrivere, per poca o nulla pratica ha dimenticato ciò che ha appreso nel passato. Gli “analfabeti di ritorno” sono coloro i quali sono esposti a rischio alfabetico verticale, che comporta il regresso al titolo di studio inferiore quando esso non sia stato esercitato convenientemente per cinque anni.
Le cause di tale analfabetismo sono di diverso tipo e non sono facilmente catalogabili. Le sue radici vanno ricercate nell’ambiente familiare, scolastico, personale e sociale delle persone coinvolte. Ma l’aspetto che generalmente viene poco considerato, e che invece a mio avviso riveste un’ importanza estrema, è che questa nuova forma di analfabetismo ha gravi ripercussioni non solo a livello individuale, come ad esempio la mancanza di autostima e la difficoltà ad affrontare la quotidianità, ma può condizionare fortemente anche la vita culturale, sociale e lavorativa delle persone toccate.
Per quanto concerne la sfera lavorativa, esiste anche un altro tipo di analfabetismo di ritorno, chiamato “analfabetismo professionale”, che se originariamente stava ad indicare la non conoscenza derivante da un mancato aggiornamento professionale, già a partire dagli
anni '80 viene riferito a un preciso fenomeno di regressione culturale, ampiamente diffuso nelle società occidentali e paradossalmente favorito dai ritmi frenetici della società globale, che consiste nell'appiattimento degli interessi di un individuo al puro ambito lavorativo, limitando o annullando completamente quelli che possono essere gli interessi culturali non strettamente collegabili alla propria professione, con un progressivo e inesorabile indebolimento della cultura generale di una società.
Ma anche limitandoci alla sola sfera professionale, osserviamo che se un tempo era usuale tenere separati il momento dell'apprendimento e della formazione dall’attività lavorativa vera e propria, oggi questo si verifica sempre più raramente. In termini di preparazione professionale, infatti, difficilmente è possibile vivere di rendita per più di qualche anno dalla fine della scuola. Da qui sorge l'esigenza di continuare ad imparare anche durante la vita lavorativa.
Il tempo dedicato all’apprendere e il tempo dedicato a lavorare non possono più restare separati ma si devono in parte sovrapporre: non solo apprendere è fondamentale per lavorare, ma lo stesso lavoro può divenire fonte empirica e privilegiata di apprendimento di conoscenze e competenze necessarie per mantenersi aggiornati, e per contribuire contemporaneamente al proprio sviluppo professionale e a quello dell'azienda in cui si lavora.
Il tema della formazione permanente, che non è una novità di questi ultimi anni, ha recentemente assunto nuova rilevanza. Da tempo, infatti, le strategie educative adottate dalle istituzioni riconoscono valore centrale alla concezione della formazione come processo che interessa le persone durante l'intero arco della vita (nell'istruzione, nel lavoro, nella vita post-lavoro). In realtà, più che riferirsi ad un semplicistico accumularsi di un bagaglio di esperienze, la formazione permanente o lifelong learning riguarda la necessità imposta oggi dal mondo del lavoro di ritornare più volte nel corso della vita, per così dire, sui banchi di scuola.
Imparare sempre è una necessità e un obiettivo per le moderne società. Non si possono affrontare la complessità del vivere quotidiano, le opportunità e i rischi insiti nel cambiamento, la pluralità di stimoli e la molteplicità delle transizioni della contemporaneità senza un lavoro costante di riflessione e d'apprendimento.
Imparare sempre. Per capire, per orientarsi e per scegliere. Per riuscire ad utilizzare le informazioni e sviluppare le competenze necessarie nel lavoro, così come nella vita. Per crescere come persone. Per vivere meglio.
Articolo di Camilla Targher, pubblicato sulla rivista "Migliorare" Anno III N° 9, 2011