mercoledì 29 febbraio 2012

benessere aziendale


Si parla sempre più spesso di benessere, riferendosi con questo termine agli ambiti più svariati: dalle cure per il corpo ai percorsi spirituali. Ma che cos’è il benessere, come possiamo definirlo? 
Il benessere, come dice la parola stessa, è un ben-essere (cioè uno stare bene/sentirsi bene), ed è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti dell'essere umano. La Commissione Salute dell'Osservatorio Europeo su sistemi e politiche per la salute ha definito il benessere come "lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società". Tutti questi cinque aspetti sono fondamentali, ma è ancora più importante che siano bilanciati ed equilibrati fra loro: se è vero che è solo con una vita soddisfacente in più ambiti che accresce il nostro senso di benessere, è altrettanto vero che impegnarsi in ognuno di essi è fondamentale per fare dei passi in avanti nella giusta direzione.
Sicuramente non si può parlare di benessere senza considerare l’aspetto lavorativo, visto che passiamo al lavoro gran parte della nostra esistenza. Si comincia a sentir parlare di “benessere aziendale”, anche se non esiste ancora una definizione univoca. Parliamo infatti di un settore che solo ultimamente sta cominciando a riscuotere una certa attenzione e sul quale il dibattito è ancora ampiamente aperto. Cos’è il benessere aziendale? Il benessere aziendale è lo star bene in azienda, cioè sul posto di lavoro, ed è dato da un insieme di fattori organizzativi e relazionali che favoriscono un clima aziendale sereno, oltre che produttivo, che si riflette positivamente sia sull’azienda che sulle persone che in essa lavorano.
Sono espressione di “benessere aziendale” vari fattori riguardanti il luogo di lavoro, che possiamo cosi suddividere:
Comunicazione: circolazione delle informazioni, condivisione delle conoscenze, qualità della comunicazione, libertà di espressione
Relazioni: rapporti fra colleghi e con i superiori, rapporti con clienti e fornitori, stima reciproca, collaborazione, aiuto
Organizzazione: stile di leadership, chiarezza di ruoli e obiettivi, riunioni, meritocrazia, orario flessibile, flessibilità contrattuale, sicurezza e igiene del lavoro
Appartenenza: senso di appartenenza all’azienda e al gruppo di lavoro, orgoglio e soddisfazione, fidelizzazione
Welfare aziendale: assistenza, prevenzione medica, fondi pensione, servizi alla persona
Servizi aziendali: mensa, asilo nido, area relax, palestre, maggiordomo aziendale, trasporto
Certo, non capita tutti i giorni di trovare aziende in cui siano presenti contemporaneamente tutti questi fattori. In particolare per quanto riguarda il welfare e i servizi aziendali, allo stato attuale sono appannaggio delle aziende di grandi dimensioni. Le altri voci, invece, si possono sviluppare in qualsiasi contesto lavorativo.
In un’ottica di life-work balance è importante ricordare che il benessere aziendale è stato posto a fondamento delle strategie europee di sviluppo della persona negli ambienti di lavoro, in quanto è ritenuto indispensabile e necessario per conciliarne i due aspetti fondamentali e complementari della persona: famiglia e lavoro

lunedì 27 febbraio 2012

la storia dei due lupi

Un anziano nativo Americano stava raccontando al giovane nipote la propria vita.
 “Mi sento come se avessi due lupi che lottano dentro il mio cuore: uno è arrabbiato, invidioso e violento, l'altro è amorevole, generoso e compassionevole”, disse il vecchio.
Il nipote rimase in silenzio per qualche istante e poi gli chiese: “Nonno, quale lupo vincerà?”.
Il nonno rispose: “Quello che sceglierò di nutrire”.
Si narra che presso alcune tribù dei nativi Americani questa storia venga raccontata ai bambini per insegnare loro a ricercare il giusto atteggiamento nella vita.

martedì 21 febbraio 2012

life-work balance

Se è vero che uno dei maggiori rimpianti delle persone che si fermano ad analizzare la propria vita è quello di aver lavorato troppo, a scapito del rapporto con i figli e con il partner, è altrettanto vero che per molte famiglie il lavoro più che una scelta è una necessità, soprattutto quando il lavoro di un solo coniuge non è sufficiente a coprire le spese di un intero nucleo familiare. Così come è altrettanto vero che c’è chi è costretto a rimanere a casa perché non ha parenti nelle vicinanze e neppure lavorando potrebbe permettersi una baby-sitter o il servizio di pre e post-scuola.
Eppure il perfetto bilanciamento fra vita e lavoro, il cosiddetto life-work balance, non rappresenta soltanto qualcosa a cui ambire a livello personale e familiare: è anche un obiettivo fondamentale per il contesto sociale ed economico in cui viviamo. Una società più attenta al life-work balance sa che se la popolazione aumenta e la sua età media gradualmente diminuisce, si avranno nuove energie produttive ed un welfare più sostenibile.
Con l’introduzione di strumenti adeguati di benessere aziendale e conciliazione fra vita e lavoro (es. servizio baby-sitter o nidi aziendali, orario flessibile, flessibilità contrattuale) si possono conciliare con maggiore facilità la scelta di fare figli e quella di lavorare, senza che l’una escluda l’altra.
Un buon equilibrio life-work aumenta la soddisfazione personale e riduce lo stress, con grande beneficio della persona (più felice ed appagata), della sua famiglia (rapporti familiari più sereni e distesi) e anche dell’azienda per cui lavora (collaboratori motivati e fidelizzati).
Nelle aziende dove il titolare è riuscito a superare lo scetticismo iniziale (“se concedo un dito, poi si prendono il braccio…”, “già lavorano poco col full-time, figuriamo col part-time…” e così via) sì è notato come il venire incontro alle esigenze dei propri collaboratori e capire appieno le loro esigenze, non solo lavorative, ma anche personali e familiari, ha rafforzato la fiducia e migliorato il rapporto azienda-collaboratore, incrementando notevolmente anche la produzione: perché se una persona sta meglio ed è più soddisfatta, anche l’azienda sta meglio e produce di più. 

venerdì 17 febbraio 2012

i cinque maggiori rimpianti

Bronnie Ware è un’infermiera australiana specializzata in terapie palliative. Il suo lavoro le ha insegnato a non sottovalutare mai la capacità di crescita e cambiamento della persona. Ad ognuna delle persone che ha assistito ha chiesto quale fosse il suo più grande rimpianto nella vita, le cose che avrebbe cambiato potendo tornare indietro. Ha raccolto tutte le dichiarazioni in un libro intitolato “The Top Five Regrets of the Dying” (I cinque maggiori rimpianti delle persone in punto di morte) che possiamo così riassumere:

  1. Vorrei avere avuto il coraggio di vivere seguendo le mie inclinazioni, non la vita che gli altri si aspettavano da me
  2. Vorrei non aver lavorato così tanto, mi sono perso l’infanzia dei miei figli e la compagnia del partner
  3. Vorrei avere avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti
  4. Vorrei essere rimasto in contatto con i  miei amici, aver dedicato loro più tempo
  5. Vorrei aver permesso a me stesso di essere più felice
Secondo la Ware, la paura del cambiamento li ha portati a credere e a fare credere agli altri di essere contenti, ma una volta in punto di morte quello che pensano gli altri non interessa più… Quello che conta è riuscire a riappropriarsi, anche se per poco, della propria vita e sorridere di nuovo.

martedì 14 febbraio 2012

San Valentino tutto l'anno


Un segreto per far funzionare bene il rapporto di coppia? Semplice, vivere ogni giorno dell’anno come se fosse “San Valentino”! Questo non significa vestirsi ogni giorno in ghingheri o prenotare raffinate cene al ristorante, ma considerare il rapporto con il proprio partner speciale, sempre.
L’amore è fatto di piccoli gesti e di quotidiana complicità. Basta poco per farci sentire amati, capiti, rispettati, desiderati: un complimento, parlarsi davanti a un caffè, ridere insieme, preparare una piccola sorpresa per la persona che amiamo. Anche un post-it sul frigo con scritto “buongiorno amore” o una torta fatta in casa con sopra un cuore di cacao possono sortire effetti straordinari! Sono le piccole attenzioni quotidiane che contribuiscono giorno dopo giorno a costruire una bella, frizzante e solida storia d’amore.
Una volta un tassista dublinese mi ha detto una cosa molto significativa: “Non vedo mai così tante coppie litigare come nella notte di San Valentino!”. Incredibile, no? Eppure è proprio così: se il rapporto è vacillante, privo di dialogo e fintamente felice, non sarà certo San Valentino a salvarlo…
Il futuro della tua relazione dipende da come festeggi non uno ma TUTTI i giorni dell’anno. A cominciare da oggi

lunedì 13 febbraio 2012

analfabeti si diventa

Viviamo in quella che viene definita la “società della conoscenza”: una società che pone la conoscenza alla base del suo stesso essere e fonda la propria crescita e competitività sul sapere, la ricerca e l’innovazione. Una società che produce conoscenza in ogni campo e che considera il “know how” la risorsa strategica, il vero motore del proprio sviluppo.
In un simile contesto tenersi al passo con i tempi non è un’optional ma una necessità. In una società in rapido e costante mutamento, infatti, quanto è valido oggi potrebbe risultare obsoleto domani. Se una volta erano sufficienti le scuole elementari per ritenersi istruiti, ora quasi tutti portano a termine gli studi superiori. Mentre un tempo bastava saper scrivere e far un po’ di conto per essere alfabetizzati, ora è necessario conoscere anche una lingua straniera, in particolare l’inglese, e saper utilizzare le principali tecnologie informatiche.
I radicali processi di cambiamento sociale, lavorativo e culturale che interessano la nostra contemporaneità, determinano nuove necessità e nuove richieste di formazione e di apprendimento che si specificano come continue e permanenti durante tutto l’arco di vita, coinvolgendo persone di diverse fasce di età e con esperienze culturali e professionali differenti fra loro.
La cosiddetta “società della conoscenza” occupa anche le priorità della Comunità Europea in termini di piani e di programmi per lo sviluppo. L’Unione Europea, infatti, si è data come obiettivo prioritario quello di portare l’Europa ad essere l’area del mondo più avanzata sul piano della conoscenza, trasformandosi in una “knowledge based society”.
Cambiano i codici, i linguaggi e il loro utilizzo e basta fermarsi anche per poco per ritrovarsi improvvisamente out, incapaci di cogliere pienamente i mutamenti che avvengono intorno a noi. Tutto quello che a fatica abbiamo imparato sui banchi di scuola e in anni di lavoro in azienda, non ci garantisce più quella base di “sapere” alla quale attingere per trovare una risposta ad ogni nuova sfida.
In una simile società l’errore più comune è adagiarsi sulle proprie conoscenze, credendo di essere qualificati a vita. Ritenersi arrivati è il maggior ostacolo all’apprendimento e al cambiamento e solo la nostra capacità di trasformarci e il nostro aggiornamento costante, in termini di conoscenze e abilità, possono consolidare il nostro presente e aprirci le porte del futuro.
Questo è ancora più evidente nel contesto socio-economico attuale, che evidenzia nella sua drammaticità il fatto che “società della conoscenza” non sia sinonimo di sicurezza o prosperità. Questa ultima crisi ci ha messi a dura prova e chi di noi ha ancora un lavoro può ritenersi fortunato. Chi ne ha fatto le spese? Sicuramente chi era meno qualificato, meno al passo con i tempi, o chi aveva smesso da tempo di imparare. Una qualifica non è più per la vita. Così come un lavoro non è più per la vita. E chi oggi si ritrova senza lavoro può sperare di riottenerlo solo riqualificandosi e  aggiornando le proprie competenze, migliorandosi al tempo stesso come persona. Ecco perché diventa sempre più importante ragionare in un’ottica di apprendimento continuo o di formazione permanente, che non si limiti alla pura riqualificazione professionale, ma che abbracci l’intera vita dell’individuo, comprendendone anche la sfera personale, culturale e sociale, in un processo armonioso e bilanciato di crescita e maturazione.
In Italia c’è un argomento spesso poco affrontato, che si chiama ”analfabetismo di ritorno”: un fenomeno sempre più diffuso tra gli adulti, che con il tempo stanno perdendo le capacità di lettura e di scrittura un tempo acquisite. Secondo i dati emanati dall’istituto CEDE (Centro Europeo dell’Educazione) questo fenomeno coinvolge il 5% della popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni.
Si definisce “analfabeta” chi non ha frequentato una scuola e non ha mai avuto la possibilità di imparare a leggere, scrivere o fare di conto. Si dice "analfabeta di ritorno" chi, pur avendo imparato a leggere e scrivere, per poca o nulla pratica ha dimenticato ciò che ha appreso nel passato. Gli “analfabeti di ritorno” sono coloro i quali sono esposti a rischio alfabetico verticale, che comporta il regresso al titolo di studio inferiore quando esso non sia stato esercitato convenientemente per cinque anni.
Le cause di tale analfabetismo sono di diverso tipo e non sono facilmente catalogabili. Le sue radici vanno ricercate nell’ambiente familiare, scolastico, personale e sociale delle persone coinvolte. Ma l’aspetto che generalmente viene poco considerato, e che invece a mio avviso riveste un’ importanza estrema, è che questa nuova forma di analfabetismo ha gravi ripercussioni non solo a livello individuale, come ad esempio la mancanza di autostima e la difficoltà ad affrontare la quotidianità, ma può condizionare fortemente anche la vita culturale, sociale e lavorativa delle persone toccate.
Per quanto concerne la sfera lavorativa, esiste anche un altro tipo di analfabetismo di ritorno, chiamato “analfabetismo professionale”, che se originariamente stava ad indicare la non conoscenza derivante da un mancato aggiornamento professionale, già a partire dagli anni '80 viene riferito a un preciso fenomeno di regressione culturale, ampiamente diffuso nelle società occidentali e paradossalmente favorito dai ritmi frenetici della società globale, che consiste nell'appiattimento degli interessi di un individuo al puro ambito lavorativo, limitando o annullando completamente quelli che possono essere gli interessi culturali non strettamente collegabili alla propria professione, con un progressivo e inesorabile indebolimento della cultura generale di una società.
Ma anche limitandoci alla sola sfera professionale, osserviamo che se un tempo era usuale tenere separati il momento dell'apprendimento e della formazione dall’attività lavorativa vera e propria, oggi questo si verifica sempre più raramente. In termini di preparazione professionale, infatti, difficilmente è possibile vivere di rendita per più di qualche anno dalla fine della scuola. Da qui sorge l'esigenza di continuare ad imparare anche durante la vita lavorativa.
Il tempo dedicato all’apprendere e il tempo dedicato a lavorare non possono più restare separati ma si devono in parte sovrapporre: non solo apprendere è fondamentale per lavorare, ma lo stesso lavoro può divenire fonte empirica e privilegiata di apprendimento di conoscenze e competenze necessarie per mantenersi aggiornati, e per contribuire contemporaneamente al proprio sviluppo professionale e a quello dell'azienda in cui si lavora.
Il tema della formazione permanente, che non è una novità di questi ultimi anni, ha recentemente assunto nuova rilevanza. Da tempo, infatti, le strategie educative adottate dalle istituzioni riconoscono valore centrale alla concezione della formazione come processo che interessa le persone durante l'intero arco della vita (nell'istruzione, nel lavoro, nella vita post-lavoro). In realtà, più che riferirsi ad un semplicistico accumularsi di un bagaglio di esperienze, la formazione permanente o lifelong learning riguarda la necessità imposta oggi dal mondo del lavoro di ritornare più volte nel corso della vita, per così dire, sui banchi di scuola.
Imparare sempre è una necessità e un obiettivo per le moderne società. Non si possono affrontare la complessità del vivere quotidiano, le opportunità e i rischi insiti nel cambiamento, la pluralità di stimoli e la molteplicità delle transizioni della contemporaneità senza un lavoro costante di riflessione e d'apprendimento.
Imparare sempre. Per capire, per orientarsi e per scegliere. Per riuscire ad utilizzare le informazioni e sviluppare le competenze necessarie nel lavoro, così come nella vita. Per crescere come persone. Per vivere meglio.
Articolo di Camilla Targher, pubblicato sulla rivista "Migliorare" Anno III N° 9, 2011

martedì 7 febbraio 2012

leadership e stile educativo

Una recente ricerca effettuata dai ricercatori dell’Università di Tour  mi ha fatto venire in mente un parallelismo fra stile di leadership nella gestione dei collaboratori e stile di educazione nella crescita dei figli, vediamo perché.
Gli studiosi di Tour hanno condotto una ricerca somministrando un questionario a centinaia di dipendenti di aziende di diverse dimensioni. I risultati hanno evidenziato che il comportamento del capo è la maggiore causa di infelicità sul posto di lavoro. Ebbene sì, a prescindere dai premi e dagli incentivi, ciò che determina il benessere o malessere dei dipendenti è il comportamento, o meglio lo stile di leadership, del proprio capo.
I ricercatori hanno rilevato che laddove il capo punta sul controllo, sulle minacce e sulla prevaricazione i collaboratori non solo felici. Questo stile di leadership mi ricorda quello che in educazione viene definito lo stile autoritario, che consiste nell’imporre ai figli un’infinità regole (non fare questo, non fare quello) senza alcuna spiegazione, magari alzando la voce e perdendo spesso la pazienza. Cosa succede ai bambini che non ubbidiscono ai genitori autoritari? Semplice, vengono messi in castigo e puniti, a volte molto severamente. Il fatto di non poter cambiare le regole (dire la propria, esternare le proprie ragioni) e di crescere in un ambiente rigido porta gradualmente il bambino ad avere una scarsa stima di sé e delle proprie capacità. Tenderà quindi a commettere errori (perché non ha la possibilità di sperimentare e di imparare sbagliando) e ad assecondare passivamente il volere degli altri. Obbedirà più per timore delle punizioni che per interiorizzare delle regole; regole che, in assenza dei genitori, tenderà a trasgredire. E ai collaboratori cosa succede? Semplice: se li trattiamo in modo eccessivamente autoritario, cioè con una serie di comandi secchi e privi della possibilità di replica, non diamo loro la possibilità di crescere e di esprimersi. Se oltre a questo li riprendiamo (magari pubblicamente) ogni volta che sbagliano e li sminuiamo per l’errore piuttosto che capire il perché hanno sbagliato, le conseguenze nel lungo termine sono due: o se ne vanno (se hanno ancora un po’ di autostima e amor proprio) oppure rimangono, ma ciò che otteniamo sono errori, ritardi, malcontento, critiche ecc. Il risultato? L’azienda va male.
L’eccesso opposto in educazione è rappresentato dallo stile permissivo, tipico dei genitori che non impartiscono punizioni ma neanche regole, se non poche e confuse. La mancanza di regole solitamente genera confusione, disorientamento e angoscia nei figli, i quali non hanno una guida sicura su cui fare affidamento e alternano momenti di presunta onnipotenza ad altri di grande disagio e smarrimento. E a livello aziendale? Significa che se tratto i dipendenti in modo esclusivamente amichevole alla fine non si capirà più chi comanda e si faticherà ad avere leadership nei momenti in cui serve (ricordiamo che in genere i collaboratori amano avere un capo attento e comprensivo, ma al tempo stesso deciso e in grado di prendere in mano le redini della situazione, quando richiesto). In questo caso l’azienda è allo sbando.
Infine troviamo lo stile autorevole, senza dubbio lo stile più consono allo sviluppo armonico e responsabile del bambino. I genitori autorevoli forniscono regole chiare e coerenti (conviene riflettere su questo aspetto, soprattutto quando il vertice aziendale è formato da più soci…) e spiegano il perché di ogni divieto e proibizione. Dialogano con il bambino, coinvolgendolo nelle decisioni, gli lasciano la possibilità di esprimersi e tendono a mediare fra i punti di vista. Si mettono in discussione e sanno cambiare idea: le regole si possono modificare se ci sono valide motivazioni (ad esempio se il figlio cresce e cambiano le sue esigenze e necessità). I figli cresciuti con stile autorevole sviluppano in genere buoni livelli di autostima, responsabilità e maturità, e si rapportano in modo positivo e costruttivo con i genitori e con gli altri. A livello aziendale, è fondamentale che ogni collaboratore riesca ad esprimersi con sufficiente autonomia (che aumenterà gradualmente in base ai risultati dimostrati e al rapporto di crescente stima e fiducia che si instaura fra dipendente e responsabile), sapendo di avere come punto di riferimento una figura forte e stabile con la quale parlare e confrontarsi in modo costruttivo. Non a caso la ricerca ha constatato che nelle aziende in cui il rapporto fra capo e dipendente si basa sull’attenzione alle relazioni e alle emozioni si registrano un maggior benessere e una maggiore produttività. Proprio così: più i lavoratori sentono l’appoggio (certo, non incondizionato) del capo verso la loro autonomia, più i collaboratori sono felici e produttivi. Questo significa che lo stile di leadership è decisivo nell’andamento positivo o negativo dell’intera azienda.
Si dice che fare l’imprenditore (e fare il genitore) sia il lavoro più difficile del mondo, ma è sicuramente anche il più coinvolgente e il più affascinante. E così come il successo di un prodotto/servizio si costruisce un passo alla volta, facendo quotidianamente tutte quelle azioni che portano ad affermare il proprio brand e a costruire un rapporto privilegiato con fornitori e clienti, lo stesso vale nel rapporto con i collaboratori: non esistono scorciatoie, ma la possibilità concreta di instaurare e costruire giorno dopo giorno rapporti solidi e duraturi che faranno la forza (irrinunciabile) della nostra azienda. E’ la strada più lunga e faticosa, ma anche l’unica che porterà risultati validi e una buona dose di benessere personale, oltre che aziendale… il che non guasta mai!