giovedì 20 dicembre 2012

20% time project


Il 20% time project è la possibilità che gli Ingegneri e i Tecnici di Google hanno di utilizzare 1/5 del proprio tempo lavorativo per dedicarsi a progetti ed iniziative a loro piacimento, cioè non strettamente attinenti alla propria mansione, in completa autonomia. Nel caso di Google, è proprio grazie a questa peculiarità organizzativa che sono nati servizi come Gmail e Google News.
Questo significa investire un giorno alla settimana per dedicarsi a progetti a scelta, per creare qualcosa di nuovo, per migliorare un prodotto/servizio già esistente e per contribuire allo sviluppo della propria azienda e della propria professionalità in modo totalmente libero e creativo.
Sicuramente nella pratica ritagliarsi un intero giorno alla settimana non è sempre facile o possibile e dipende da vari fattori quali ad esempio la posizione che si ricopre in azienda o il carico di lavoro, ma anche dalla capacità organizzativa individuale, unita al desiderio di dedicare del tempo ad attività non strettamente urgenti o necessarie nell’immediato, ma non per questo meno importanti o meno strategiche.
Dedicare un 20% del proprio tempo a progetti liberi ed innovativi non significa infatti essere inadempienti o accantonare il lavoro non svolto, bensì ottimizzare i tempi per svolgere la propria attività nell’80% del proprio tempo a disposizione, abilità fondamentale in particolare per ogni titolare o libero professionista di oggi, che sappia quanto dedicarsi regolarmente a ricerca e sviluppo, innovazione e crescita strategica siano solo alcune delle attività essenziali (anche se spesso trascurate) che contribuiscono a capire e anticipare le tendenze e le esigenze di un mercato mutevole e frammentato.
E se da un punto di vista lavorativo ti senti ancora lontano da questo traguardo, scegli almeno di dedicare il 20% della tua pausa natalizia a ciò che ami veramente: a te stesso, ai tuoi cari, ai tuoi desideri, a tutte quelle piccole cose che non ti prendi mai il tempo di fare, a tutti quei piccoli grandi sogni che rinvii sempre di sognare…
Buon Natale!

sabato 20 ottobre 2012

Italiani "mammoni"


Qualche giorno fa mi sono imbattuta nella pubblicità di una società immobiliare Norvegese, uno spot ironico e pungente che spiega ai giovani norvegesi come sia meglio uscire di casa presto, per evitare di ridursi come i nostri mammoni

Il tutto condito da situazioni al limite del paradosso, in cui si vede una mamma italiana che prepara il bagnetto per il figlio (ormai quarantenne) e che gli fa il solletico sotto il piedino, oppure un’altra mamma che dice “mio figlio è troppo importante per cucinarsi il pranzo da solo” e che lo imbocca dopo aver cucinato per lui, oppure un’altra ancora che augura buona notte al proprio figlio (adulto), rimboccandogli ancora le coperte.

Provocazioni? Estremismi? Stereotipi? Sicuramente sì, nel senso che alcune situazioni sono volutamente enfatizzate ed esagerate, ma non per questo prive di verità. Si parla molto ultimamente di mammoni e di bamboccioni e ci si divide fra chi ritiene che vergognosamente in Italia si rimanga a casa molto più a lungo che in qualsiasi altro Paese d’Europa (e non solo…) e chi invece argomenta la questione descrivendo come impossibile uscire di casa presto con un lavoro precario ed uno stipendio a meno di 1000 euro al mese, che rende la permanenza a casa non una scelta bensì una necessità.

Sicuramente ci sono alcuni fattori oggettivi importanti e non trascurabili e certamente il fatto di essere un Paese (l’Italia) con seri problemi in termini di occupazione e retribuzione non facilità i giovani a scelte di indipendenza. D’altra parte, però, c’è anche un’abitudine a considerarsi “piccoli” oltremodo.

Negli Stati Uniti, ad esempio, è normale che un ragazzo/a durante le superiori si trovi un lavoro (cameriere e lavapiatti fra i più gettonati) che lo impegni al pomeriggio dopo scuola, per cominciare ad avere una prima disponibilità economica per pagarsi le spese non strettamente necessarie che, anche se vive ancora in casa, preferisce non far gravare sui genitori (cinema, profumo, vacanza, ecc.).

In Inghilterra è normale che chi frequenta l’Università, oltre a studiare di giorno, si trovi un lavoretto (anche il portiere di notte, se necessario) per pagarsi gli extra e parte degli studi, e dico questi cose perché sono vissuta all’estero alcuni anni e le ho viste con i miei occhi: i giovani fanno tutto il possibile per uscire presto di casa!

Qui in Italia, invece, mi capita spesso di vedere l’esatto contrario: pochi giorni fa ho sentito un “ragazzo” di 40 anni dire al proprio datore di lavoro che il motivo per cui il mattino è arrivato tardi al lavoro è perché i genitori non l’hanno svegliato in tempo. E’ troppo pretendere che uno a 40 anni sappia usare la sveglia da solo?! Un altro ha chiesto di poter iniziare più tardi il turno del pomeriggio, perché altrimenti non ha il tempo per tornare a casa in pausa pranzo e la sua mamma ci rimane male se non mangia con lei. Cose dell’altro mondo? No, cose di questo mondo: cose all’italiana.

Questo a mio avviso significa che le cause che portano gli italiani a stare ancora in casa a 40 anni sono fondamentalmente due: ECONOMICA (le difficoltà oggettive dovute a contratti precari e scarsa retribuzione) ma anche e soprattutto CULTURALE, ovvero la comodità di vivere da grandi come se si fosse ancora piccoli, perché è più comodo non crescere, perché è più facile non prendersi le proprie responsabilità (complici le mamme che non voglio rinunciare alla loro insostituibilità). 

Non si può modificare la cultura di un Paese in un istante e forse non sarebbe nemmeno giusto farlo, ma almeno non raccontiamocela quando additiamo alla situazione economica l’UNICA causa dello stare a casa ad oltranza, non è così.

giovedì 4 ottobre 2012

benvenuto stress


Siamo abituati a pensare allo stress come ad un qualcosa di negativo, da sconfiggere in tutti i modi. Il termine stress deriva dall’inglese e significa letteralmente tensione, sforzo, sollecitazione. Nel linguaggio comune è usato come sinonimo di ansia e affaticamento psico-fisico, in rapporto a situazioni di vita ad alto contenuto emotivo.
 Eppure esiste un tipo di stress, chiamato eustress, che ha una valenza positiva.

Si può parlare di eustress, ovvero di stress positivo, quando lo stress riguarda fenomeni di breve durata, in grado di rilasciare la giusta dose di adrenalina, che ci permette di sentirci particolarmente forti ed in grado di affrontare le sfide. Al contrario, lo stress si chiama distress e diventa negativo quando si protrae per periodi prolungati di tempo, finendo per divenire cronico.

Quando si parla di eustress ci si riferisce quindi ad un carico di tensione sopportabile che porta il nostro organismo a reagire agli input esterni e ad adattarsi con facilità ai cambiamenti improvvisi nell’ambiente. Quando invece la reazione di stress è troppo intensa o lo stimolo eccessivamente prolungato, si parla di stress cronico che a lungo andare può trasformarsi in disturbi d’ansia di vario tipo.

Questo significa che lo stress di per sé non fa male, a patto che si abbia il giusto tempo per recuperare! Considerando che la risposta allo stress è soggettiva e che alcune persone lo sopportano meglio di altre, è indispensabile capire quali sono gli stressors o agenti stressanti che ci mettono alla prova e, se possibile, ridurne l’influenza.

Ad esempio, coltivare un semplice hobby come andare in palestra può essere estremamente benefico per alcuni (un modo liberatorio per scaricare la tensione dopo una giornata in ufficio) ma dannoso per altri (uscire di corsa dal lavoro, restare imbottigliati nel traffico e innervosirsi ulteriormente perché siamo in ritardo per la lezione di spinning, alla quale arriviamo assolutamente esausti, mentre tutto quello che sognamo sono una doccia rilassante e un bel letto caldo).

Questo significa che non esiste qualcosa che in assoluto ci faccia stare bene o al contrario ci metta necessariamente in difficoltà. L’importante è fermarsi anche solo 5 minuti ad ascoltarsi, a valutare se il proprio stile di vita è in armonia con il proprio ritmo naturale e ad ammettere a noi stessi che non possiamo chiedere l’impossibile al nostro corpo-mente.

Ci saranno ovviamente scadenze ed impegni che non possiamo in alcun modo demandare, ma troveremo anche tante piccole cose in grado di farci stare bene. Potremmo ad esempio cominciare a coltivare tutte quelle situazioni portatrici di eustress, che la psicologa neozelandese Alice Boyes individua in 5 precise attività:

-       innamorarsi
-       viaggiare
-       affrontare gradualmente le proprie paure
-       introdurre un cambiamento nella propria vita
-       essere curiosi nei confronti delle novità

Buon eustress a tutti!

lunedì 24 settembre 2012

jat lag sociale


Il jet lag, o discronia, è un disturbo che solitamente si manifesta attraversando vari fusi orari. In particolare dopo lunghi viaggi aerei è comune avvertire una sensazione di stordimento, stanchezza, spossatezza e confusione, in quanto il nostro ritmo circadiano viene in breve tempo alterato.

Questi sintomi, però, oggi non vengono più avvertiti solamente come conseguenza di un lungo viaggio, ma anche durante la nostra normale quotidianità, e prendono il nome di jet lag sociale, ovvero una disfunzione originata dalla non corrispondenza tra i nostri ritmi naturali e quelli imposti dalla società, sempre più frenetica nel non facile alternarsi fra esigenze personali, sfera familiare e impegni lavorativi.

I ritmi pressanti imposti dai vari impegni alle nostre vite ci portano ad ignorare costantemente i ritmi naturali e le richieste del nostro corpo, costringendoci ad una dissonanza continua fra ciò che facciamo e ciò di cui avremmo realmente bisogno.

Il risultato? Una sorta di perenne “sindrome da fuso orario”, che si manifesta con gli stessi sintomi, anche se ha cause diverse. A parlarne sulle pagine di Current Biology è Till Roenneberg dell’Università di Monaco, autore della ricerca: «Questa sindrome, che non era mai stata descritta prima, si caratterizza per una discrepanza fra l’orologio biologico e l’orologio 'sociale' che impone alle persone dei ritmi, legati soprattutto alle esigenze lavorative, diversi da quelli biologici».

Le conseguenze del jet lag sociale sono comuni e non vanno sottovalutate: si va dall’insonnia, all’abuso di alcol e caffeina, persino all’aumento di peso e obesità.
Secondo lo studio, una persona su tre soffrirebbe di più di due ore di jet lag sociale, mentre per il 69% sarebbe di almeno un’ora e, ovviamente, tanto più il jet lag sociale è ampio, tanto più aumenta il rischio di sviluppare malattie metaboliche e sovrappeso.

Trovare una soluzione non è semplice perché ci sono dei ritmi imposti dal lavoro e dalla società che non sempre abbiamo la possibilità di modificare. Quello che invece possiamo fare è imparare ad ascoltare il nostro corpo e a capirne i segnali. Se fatichiamo a concentrarci, ci raffreddiamo al minimo spiffero, se soffriamo spesso di mal di testa e così via, probabilmente abbiamo accumulato troppo stress.

Abituiamoci a fare una passeggiata nel weekend, possibilmente respirando aria pura, e a gustarci qualche ora di sole, inseriamo gradualmente nella nostra alimentazione i cibi naturali eliminando gradualmente quelli pieni di zuccheri-conservanti-coloranti, impegnamoci ad andare a letto anche solo una mezzora prima: sono piccole ma importantissime attenzioni che concediamo al nostro ritmo naturale di vita e al nostro corpo… ce ne sarà sicuramente grato!

venerdì 7 settembre 2012

Customer Care: la cura del cliente


Si parla tanto di customer care, che in italiano viene generalmente tradotto con “attenzione per il cliente”, anche se il termine inglese “care” ha un significa più ampio che può essere tradotto come “prendersi cura di”, ed è in questa accezione che mi piace pensare al customer care, come ad un prendersi cura del cliente.
Ci sono molti modi per prendersi cura dei propri clienti. Alcuni sono molto semplici ma pur sempre indispensabili, come fornire un prodotto/servizio all’altezza delle aspettative, esserci sempre se ha bisogno di noi per assistenza o ulteriori informazioni, chiamarlo o passarlo a trovare regolarmente per accertarci che tutto stia andando per il meglio.
Ma ci sono anche mille altri modi per sorprenderlo, per coccolarlo, per farlo sentire al centro delle nostre attenzioni, e non sto parlando di azioni particolarmente costose: a volte semplicemente con un pizzico di inventiva si posso fare cose memorabili!
Tempo fa ho letto un articolo che descriveva alcuni casi di customer care particolarmente degni di nota, ne riporto alcuni (puoi trovare l’articolo completo I migliori casi di customer care a questo indirizzo: http://it.finance.yahoo.com/foto/i-migliori-casi-di-customar-care-slideshow).
La steakhouse americana Morton ha letto in tempo reale un Twit postato da un ragazzo in volo che ha espresso il suo desiderio di trovare una succulenta bistecca con patatite pronte ad accoglierlo al suo arrivo in aeroporto. Alla Morton non ci hanno pensato due volte: hanno rintracciato il volo, identificato il passeggero e si sono presentati in aeroporto con bistecca e patatine!
La catena di supermercati britannica Sainsbury’s ha cambiato il nome delle pagnotte da “Tiger bread” (pane tigre) a “Giraffe bread” (pane giraffa), dopo aver ricevuto una lettera scritta da una bambina che faceva notare loro come il loro pane maculato assomigliasse più ad una giraffa che ad una tigre.
Anche la Apple non smentisce la propria originalità ed ad un cliente che aveva rispedito all’azienda l’ipad2 appena acquistato con un post-it giallo attaccato alla confezione con scritto: “Wife says no” (mia moglie dice di no), la Apple non solo ha restituito i soldi al cliente, ma gli ha fatto recapitare un iPad2 con un post-it giallo con scritto “Apple says yes”!
Il risultato? Sicuramente queste aziende si sono fatte qualche nuovo cliente che non solo acquisterà da loro, ma parlerà di loro in termini entusiastici ai propri famigliari, amici e conoscenti. Non solo, le aziende in questione con queste vincenti azioni di customer care hanno fatto parlare di sé in mezzo mondo. Quanto vale tutto questo? Quanto conta, oggi, nel contesto economico in cui viviamo, in cui il lavoro e i clienti non abbondano, riuscire a tenersi stretti quelli che si hanno e prendersi cura di loro? Quanto vale la capacità di pensare a qualcosa che faccia sentire speciali i nostri clienti? E che attraverso la loro preziosa testimonianza faccia parlare bene di noi?
Se non hai mai fatto qualcosa di speciale per i tuoi clienti, comincia oggi: anche l’azione più semplice, come un “ho telefonato per augurarti una buona giornata” può fare molto piacere, ma con un pizzico di fantasia e di buona volontà puoi fare molto di più…. ne sono certa!

lunedì 16 luglio 2012

Bigenitorialità e affidamento condiviso


E’ uscito in questi giorni il rapporto ISTAT su "Separazioni e divorzi in Italia" relativi al 2010, anno in cui si sono celebrati quasi 218.000 matrimoni, ma in cui sono avvenute anche più di 88.000 separazioni e circa 54.000 divorzi.

Se nel 2009 ogni 1000 matrimoni ci sono state 297 separazioni e 181 divorzi (dettagli su ISTAT: separazioni e divorzi in questo blog), nel 2010 ogni 1000 unioni sono state registrate 307 separazioni (ufficiali) e 182 divorzi.

Come nel 2009, anche nel 2010 la durata media di un matrimonio in Italia è stata di 15 anni per le separazioni (18 per i divorzi) e a lasciarsi sono state principalmente persone intorno ai 40-45 anni.

Altri dati significativi sono il fatto che i matrimoni più recenti durano sempre meno e che in oltre la metà dei casi chi si divide ha dei figli. In questo caso, quasi il 90% delle coppie ha ottenuto l'affido condiviso.

L'affidamento condiviso regola l'affidamento dei figli e l'esercizio della potestà genitoriale in caso di cessazione di convivenza dei genitori e prevede che ciascun genitore sia pienamente responsabile quando i figli sono con lui. In caso di conflitto, l’affidamento suddivide in modo equilibrato le responsabilità specifiche e la permanenza presso ciascun genitore, mantenendo inalterata la genitorialità di entrambi e tutelando quindi la relazione con i figli.

L’affidamento condiviso si basa sul principio di bigenitorialità, in base al quale un bambino ha una sorta di diritto naturale a mantenere un rapporto stabile con entrambi i genitori, anche nel caso in cui questi siano separati o divorziati (a patto che non esistano impedimenti che giustifichino l'allontanamento di un genitore dal proprio figlio). Tale diritto è basato sul fatto che essere genitori è un impegno che si prende nei confronti dei figli e non dell'altro genitore.

In questo’ottica l’affido condiviso è volto alla tutela dei minori e del loro diritto a continuare a ricevere cure, educazione ed affetto da entrambi i genitori, al di là delle possibili influenze di parte.

giovedì 14 giugno 2012

gratta e perdi


Nei giorni scorsi ho letto alcuni dati che mi hanno fatto riflettere. Nel 2011 il fatturato del mercato legale del gioco in Italia è stato pari a 79,9 miliardi di euro (senza contare altri 10 miliardi di euro circa di fatturato illegale). Una cifra importante, che vede l’Italia al primo posto in Europa e al terzo nel mondo tra i Paesi che giocano di più, un Paese nel quale in media ogni persona (neonati compresi) spende 1260 euro all’anno nel gioco.
Un fatturato che è 16 volte superiore a quello di Las Vegas ed è destinato a raggiungere gli 80 miliardi stimati nel 2012 grazie alle 400mila slot machines presenti nel nostro Paese, cioè una “macchinetta mangiasoldi" ogni 150 abitanti. Siamo circondati da giochi a risultato in tempo reale: bar, tabaccherie, perfino le aree di servizio in autostrada ti propinano giochi a vincita immediata. Non riesci più a berti un caffé in santa pace, senza che il barista di turno provi a rifilarti un gratta e vinci. “No grazie, voglio solo un caffé” è la mia risposta, ma basta fermarsi in prossimità della cassa per alcuni minuti per osservare come tante altre persone, insieme al caffé, acquistino uno, due, cinque, dieci biglietti (con conseguenti facce lunghe per non aver vinto nulla… neanche stavolta!).
La crisi aumenta, le aziende chiudono, ma l’industria del gioco non conosce rallentamenti, anzi con la crisi cresce. Sono già 5000 le aziende attive nel settore, con un’ampia offerta di tipi di gioco: dai nuovi Win for Life alle slot machines, dai video poker alle scommesse, senza contare il boom inarrestabile dei giochi on-line.
Una diffusa tendenza al gioco di fatto sostenuta anche dalla pubblicità, che invece che evidenziarne le reali conseguenze, prospetta facili quanto improbabili rivincite sociali, alleggerendosi la coscienza con un semplice invito a “giocare responsabilmente” a fine messaggio.
Le conseguenze vere, però, sono altre: 800.000 sono le persone con forme di dipendenza da gioco d’azzardo e quasi due milioni i giocatori a rischio. Sì perché il gioco d’azzardo è una vera e propria malattia, anche se in Italia la dipendenza dal gioco non è ancora considerata una patologia a tutti gli effetti (nonostante ammalarsi costi allo Stato circa 38.000 euro l'anno per ogni giocatore patologico), ma in realtà andrebbe curata come qualsiasi forma di dipendenza, pericolosa proprio per la facilità di ricaduta.
Sicuramente il clima generalizzato di incertezza e di sfiducia può portare a credere che rimboccarsi le maniche per migliorare il proprio status non sia sufficiente e sicuramente non lo è, ma è comunque necessario e indispensabile se non vogliamo che sia il caso a governare le nostre vite, a decidere da un giorno all’altro se dobbiamo essere tristi oppure felici. La felicità (e i soldi) si conquistano un passo alla volta, con tenacia e con costanza nel tempo, e se è vero che non abbiamo molte certezze una cosa almeno è sicura: se consideriamo il gioco come l’unica possibilità di riscatto per una vita migliore, abbiamo perso in partenza.

venerdì 25 maggio 2012

Giornata Internazionale dei Bambini Scomparsi


Oggi, 25 maggio, è la Giornata Internazionale dei Bambini Scomparsi.

L’Associazione Europea Missing Children Europe ha prodotto per Telefono Azzurro un video volto a sensibilizzare l'opinione pubblica sul problema delle scomparse di minori, e a promuovere il 116 000, numero esistente in 17 paesi dell'Unione Europea, che offre sostegno emotivo e psicologico alle famiglie in un momento di estrema crisi come quello della scomparsa di un minore.

Si tratta di un progetto importante che Valeria Setti, Project Officer di Missing Children Europe, ci invita a diffondere per aiutare Telefono Azzurro e Missing Children Europe a restare a fianco delle tante famiglie che ancora aspettano i loro bambini.

E’ possibile guardare il video sul sito di Repubblica a questo indirizzo:

martedì 15 maggio 2012

ISTAT: separazioni e divorzi in Italia


Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una profonda trasformazione delle relazioni familiari: aumentano i genitori single, i single non vedovi, le unioni libere e le famiglie ricostituite.
Le normative in ambito familiare hanno subito notevoli modifiche negli anni (la legge sul divorzio, la riforma del diritto di famiglia, la legge sull’adozione e l’affidamento dei minori, la legge sull’affidamento condiviso dei figli del 2006) e molteplici sono i fattori che hanno favorito la diversificazione delle tipologie familiari: diminuisce il tasso di nuzialità, sale l’età in cui ci si sposa, aumentano i matrimoni celebrati con rito civile, diminuisce il tasso di natalità e cresce il numero delle nascite fuori dal matrimonio.
Ogni anno l’Istat rende noti i risultati delle rilevazioni sulle separazioni e sui divorzi condotte presso le cancellerie dei 165 tribunali civili, raccogliendo i dati relativi ad ogni singolo procedimento concluso dal punto di vista giudiziario nell’anno di riferimento.
Scopo delle rilevazioni è monitorare l’evoluzione temporale e le principali caratteristiche delle unioni matrimoniali: la durata media dei matrimoni e l’età media dei coniugi alla separazione, il tipo e la durata dei procedimenti (consensuale o giudiziale), il numero di figli coinvolti e la tipologia di affidamento dei figli minori.
In base ai dati Istat diffusi a luglio 2011, nel 2009 le separazioni in Italia sono state 85.945 e i divorzi 54.456, con un incremento rispettivamente del 2,1 e dello 0,2% rispetto all’anno precedente. Si tratta di incrementi più contenuti rispetto ai due anni precedenti (2007 e 2008), ma comunque in crescita: se nel 1995 ogni 1.000 matrimoni si sono registrati 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2009 si arriva a 297 separazioni e 181 divorzi ogni 1000 matrimoni (andando da un valore minimo di 198,6 separazioni al Sud ad un valore massimo di 374,9 separazioni per mille matrimoni nel Nord-ovest). Rispetto al 1995 le separazioni sono aumentate di oltre il 64% ed i divorzi sono praticamente raddoppiati (+ 101%), dati ancora più significativi se pensiamo che nel contesto in cui viviamo i matrimoni sono diminuiti e quindi i dati sono imputabili ad un effettivo aumento della propensione alla rottura dell’unione coniugale.
La durata media del matrimonio è di 15 anni per le separazioni e a 18 anni per i divorzi.

 L’età media alla separazione è di circa 45 anni per i mariti e 41 per le mogli, che nel caso di divorzio sale a 47 e 43 anni. Questi valori sono aumentati negli anni sia per una diminuzione delle separazioni sotto i 30 anni (effetto della posticipazione delle nozze) sia per un aumento delle separazioni con almeno uno sposo ultrasessantenne.


La tipologia di procedimento scelta in prevalenza dai coniugi è quella consensuale: nel 2009 si sono concluse consensualmente l’85,6% delle separazioni e il 72,1% dei divorzi.
Il 66,4% delle separazioni e il 60,7% dei divorzi hanno riguardato coppie con figli avuti durante il matrimonio. Fino al 2005, ha prevalso l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre, mentre dal 2006 in poi grazie alla Legge 54/2006 che ha introdotto l’istituto dell’affido condiviso dei figli minori come modalità ordinaria, l’affidamento è stato principalmente condiviso: nel 2009 l’86,2% delle separazioni di coppie con figli ha previsto l’affido condiviso contro il 12,2% dei casi in cui i figli sono stati affidati esclusivamente ad uno genitore (in genere alla madre).
Numerose sono le cause di tali mutamenti: si entra sempre più tardi nell’età adulta, anche per una sempre maggiore instabilità lavorativa che non permette di fare progetti impegnativi in giovane età, aumentano le possibilità di spostamenti e i contatti sociali, ma contemporaneamente diminuisce l’attaccamento al territorio, alla comunità, e la coppia viene vissuta con mentalità più individualistica rispetto al passato (un “nido d’amore” avulso dal contesto di appartenenza), con notevoli conseguenze sulle aspettative, le aspirazioni (e le inevitabili delusioni) dei soggetti coinvolti, con forti ripercussioni a livello demografico, sociale, economico e culturale.

giovedì 26 aprile 2012

24 ore al giorno


24 ore è il tempo che tutti abbiamo a disposizione ogni giorno, eppure esistono due categorie fondamentali di persone: chi ha sempre tempo a sufficienza e chi non ne ha mai abbastanza. Com’è possibile?!
E’ possibile perché, a parità di ore a disposizione, ciò che cambia sono il nostro rapporto con il tempo e il nostro modo di utilizzarlo.
Il rapporto con il tempo dipende dall’idea di tempo che abbiamo. Per alcune persone arrivare in ritardo o mostrarsi perennemente indaffarati è “positivo”, perché dimostra agli altri che tu sei un tipo con una vita piena di stimoli e un sacco di cose da fare. A volte è vero, ma la maggior parte delle volte ti cercherai semplicemente un sacco di cose (inutili) da fare, pur di non tradire il ruolo che ti sei dato.
L’altro caso riguarda una scorretta gestione del tempo: potresti impiegarci la metà del tempo a fare quello che fai, ma sei talmente lento/disorganizzato che ci metti il doppio (se poi rientri anche nella categoria di cui sopra… sei fritto).
Incredibile ma vero: sai quand’è che una persona impara ad ottimizzare il tempo? Quando ne ha poco a disposizione! Il che significa: poco tempo = tanta motivazione.
Provare per credere: scegli un’attività fra quelle che devi svolgere e stabilisci quanto tempo ti servirà per farla. Bene, adesso dividi il tempo per due e mettiti subito all’opera. Finirai in meno che non si dica!
Se invece avrai un sacco di tempo davanti a te, troverai mille modi per perderti in cose futili (tanto c’è tempo…) e alla fine dovrai correre come un matto per far fronte agli impegni e alle scadenze.

Alcuni suggerimenti per lavorare meglio e avere più tempo per sé:
  • pianifica il tuo lavoro/la tua giornata
  • fissa in agenda non solo ciò che devi fare ma anche quello che vuoi fare (es. andare in piscina, al cinema, ecc.)
  • parti dalle attività più difficili e impegnative
  • utilizza i timeboxes (scatole del tempo) fissando dei limiti di tempo di 30 minuti (massimo 1 ora) per completarle; attività particolarmente lunghe possono essere divise in sotto-attività
  • individua (ed elimina) i modi on cui perdi tempo abitualmente
  • delega ciò che qualcun altro può fare a posto tuo
  • impara a dire di no
Ops, tempo scaduto. 

venerdì 20 aprile 2012

figli e TV


Intere giornate passate davanti alla televisione, programmi TV come sostituto di relazioni e di scambi reali, TV babysitter, TV per spronare i figli a mangiare o fare i compiti. A che prezzo?
Sono sempre più numerose le situazioni di non-comunicazione, con conseguenze di vario genere negli ambiti più svariati: famigliare, scolastico, lavorativo.
Adulti e ragazzi che faticano a dialogare, individui che parlano senza ascoltarsi, caratteri chiusi e scontrosi che guardano gli altri con sospetto e diffidenza. Il paradosso è che la maggior parte delle persone vorrebbe migliorare il modo in cui comunica e in cui si relaziona con gli altri, ma non sa come fare. Forse, molto semplicemente, non è mai stata abituata a farlo.
Da recenti ricerche condotte in Italia emerge un dato che fa pensare: i bambini in età prescolare guardano la televisione in media due ore e mezza al giorno, con punte massime che arrivano fino a cinque ore. Come se ciò non bastasse, i bambini guardano la televisione principalmente da soli, cioè senza che un adulto verifichi cosa vedono, come lo interpretano e quanto a lungo lo guardano.
Il rapporto con la televisione è fondamentalmente diverso fra adulti e bambini: se i primi si rivolgono al piccolo schermo per questioni di informazione o intrattenimento, per i bambini la televisione è un autentico strumento di scoperta del mondo, un canale attraverso il quale acquisire attitudini e comportamenti necessari a crescere e ad inserirsi nel contesto che li circonda.
Questo ruolo dovrebbe essere degli adulti, non di un loro sostituto catodico, eppure sono sempre di più i bambini che crescono in famiglie dove ci si vede solo la sera e dove il momento del pasto non viene vissuto come un’occasione di ritrovo e di ascolto reciproco, ma come un luogo silenzioso dove a “parlare” sono il telegiornale o il telefilm di turno. Famiglie dove anche dopo cena l’attività principale rimane guardare la TV e dove magari i bambini si addormentano guardando il cartone preferito, con la conseguenza che attività semplici ma fondamentali quali la capacità di dialogare, di raccontare e di ascoltare non vengono opportunamente coltivate.
Esistono anche molte trasmissioni educative e programmi e cartoni per bambini pensati e creati per crescere ed educare: non è la televisione il problema, ma il suo utilizzo smodato e senza controllo. E’ una questione di abitudine: di buona o di cattiva abitudine.
Parlare ed ascoltare sono abilità che si possono allenare alla stregua di molte altre (i muscoli del corpo, la memoria, ecc.), ma non possiamo pretendere che i giovani e gli adulti sappiano instaurare con facilità relazioni edificanti, se non sono mai stati abituati a farlo.
Il dialogo e l’ascolto si imparano e se è vero che non è mai troppo tardi per imparare, è altrettanto vero che prima si comincia e più si riuscirà ad ottenere, perché le abilità che si acquisiscono da piccoli entrano con facilità nel nostro bagaglio di conoscenze e ci accompagnano per tutta la vita.
Come fare per allenare alla parola e all’ascolto? Ecco alcuni pratici consigli da applicare con facilità:
  • La sera a cena lasciare spenta la TV e chiedere agli altri membri della famiglia (grandi e piccini) di raccontare la loro giornata e di ascoltare la tua
  • Quando si guarda la TV, scegliere programmi adatti all’età dei propri figli, possibilmente guardare i programmi insieme a loro, decidere un momento della giornata e un limite di tempo in cui guardare la TV, evitare di vedere la TV in camera da letto, durante i pasti, durante i compiti
  • Organizza per i tuoi bambini delle attività alternative da fare insieme (leggere un libro, fare un collage, costruire una tana con i cuscini del divano, ecc.).
Brontoleranno un po’ all’inizio, ma se sarai brava/o a coinvolgerli, vi divertirete moltissimo insieme!

mercoledì 11 aprile 2012

chi ben comincia...


Un famoso detto popolare recita: chi ben comincia è già a metà dell’opera. Niente di più vero, soprattutto se preso e applicato alla nostra giornata, lavorativa e non.
Quando hai 1000 cose da fare, talmente tante che non sai da dove iniziare, l’importante è…iniziare! Sembra banale (e sicuramente lo è) ma a volte sono proprio le cose più semplici che possono facilitarci o al contrario complicarci la vita.
Se hai un sacco di cose da fare e sei già stressato al solo pensiero di metterti all’opera e magari per rilassarti ti siedi al computer e, proprio sapendo che ti aspetterà una “giornataccia”, decidi di partire “bene” leggendo qualche notizia curiosa qua e là o controllando quanti amici ti hanno scritto raccontandoti tutto, ma proprio tutto, su come hanno trascorso la Pasqua o il weekend (compreso che sorprese hanno trovato nelle uova al cioccolato), sappi che questo non ti aiuterà ad arrivare a fine giornata contento e soddisfatto per il lavoro svolto, perché probabilmente avrai ancora un sacco di cose da fare, pronte ad accumularsi per il giorno dopo…
Se invece a inizio giornata cominci SUBITO con le cose più importanti, anche se ancora non urgenti, con quelle che richiedono maggiore concentrazione, quelle prossime alla scadenza, quelle che DEVI proprio fare, allora parti subito col piede giusto!
In questo modo hai la possibilità di lavorare concentrato, perché sei fresco e riposato, e riesci a produrre meglio in meno tempo, anche perché probabilmente i colleghi ed il telefono che squilla non hanno ancora cominciato ad interromperti. Inoltre terminare per tempo le attività più importanti fa sentire bene, più soddisfatti e più leggeri e ti lascia poi tutto il tempo e la flessibilità per dedicarti all’ordinaria amministrazione, alle attività meno importanti e a tutto il resto (urgenze comprese), e perché no…. anche ad una bella (e a questo punto meritata) pausa caffé!

lunedì 2 aprile 2012

buy my face


Trovare un lavoro dopo l’Università non è sempre facile o immediato. Ne sanno qualcosa Ross Harper e Ed Moyse, due giovani ragazzi inglesi di ventidue anni da poco laureatisi a Cambridge, uno in neuroscienze e l’altro in economia.
Dopo aver inviato il loro curriculum a numerose aziende e società e dopo aver collezionato una serie di risposte negative, pressati da un debito universitario di 50mila sterline, hanno avuto un’idea tanto semplice quanto geniale: “vendere la propria faccia” a prestigiosi marchi pubblicitari e camminare in giro per Londra con il viso dipinto, attirando così gli sguardi di turisti e cittadini (oltre a quella dei media di mezzo mondo).
Ed e Ross non hanno intenzione di vendere la propria faccia a vita, ma solo per un periodo di tempo sufficientemente lungo a ripargarsi il debito contratto. Il loro progetto è iniziato il 01 ottobre 2011 e durerà 366 giorni, cioè un anno esatto. Oggi sono al Day 184 e hanno già guadagnato 33.332 sterline!!
Stanno lavorando con clienti del calibro di Ernst & Young e ricevono richieste persino da Hong Kong e Stati Uniti, oltre che dal resto d’Europa. Il loro sito è http://buymyface.com
Non so predire che cosa faranno realmente “da grandi” questi due esuberanti ragazzi, una volta che il progetto pilota sarà terminato, ma di una cosa sono certa: sentiremo ancora parlare di loro!

mercoledì 28 marzo 2012

Plutarco

Individuare una colpa è facile; 

è fare meglio che può essere difficile.


Plutarco (scrittore e filosofo greco)

lunedì 19 marzo 2012

il conflitto in azienda



In azienda lavorano fianco a fianco persone differenti per carattere, età, formazione, aspirazioni e aspettative e numerose sono le situazioni di potenziale conflittualità: fra titolari, tra colleghi, fra reparti, con i clienti, i fornitori e così via. Il conflitto è una componente intrinseca alla diversità ed è quindi naturale trovarlo all’interno del contesto lavorativo. Non possiamo annullarlo, ma possiamo imparare a riconoscerlo e a gestirlo in maniera adeguata.

Il conflitto ha una componente potenzialmente positiva nell’ambito delle relazioni: ci aiuta a comprendere che cosa desideriamo e che cosa desiderano gli altri, stimolando entrambe le parti a cogliere i fattori determinanti che influiscono sulle decisioni da prendere. Quando il conflitto non trova canali di elaborazione, porta a situazioni di disagio e di stress, fino ad arrivare a scontri (verbali o fisici) per non parlare di vertenze giudiziarie lunghe e costose, che portano spesso ad una “soluzione” imposta, che difficilmente porterà ad una ripresa della comunicazione e del dialogo fra le parti. In un simile contesto si creano anzi i presupposti per la nascita di nuovi conflitti, in quanto quelli precedenti non sono in realtà mai stati gestiti o interamente risolti.

A seconda di come viene gestito all’interno di un gruppo, il conflitto può essere costruttivo o distruttivo. Il conflitto distruttivo si manifesta in un tipo di comunicazione competitiva in cui ognuno tende ad imporre le proprie idee e a dimostrare al resto del gruppo di avere ragione. Si tratta di un rapporto “win-lose”, dove uno vince e gli altri perdono. La circolazione delle informazioni e la libertà di espressione si riducono gradualmente e i membri del gruppo (o una parte di essi) finiscono per omologarsi al più forte, oppure scelgono di stare sulla difensiva per non rischiare attacchi personali. Le relazioni interpersonali e il clima aziendale risentono di queste dinamiche, con conseguenze in negativo sullo stress e sulla produttività, distogliendo le risorse coinvolte dagli obiettivi aziendali.

Il conflitto costruttivo si innesca quando i membri di un gruppo riconoscono il disaccordo come un aspetto naturale nelle dinamiche di gruppo e lo considerano un’occasione di crescita e di arricchimento. Si cerca, all’interno delle diverse opinioni, di trovare i fattori di accordo, in un’ottica “win-win” dove tutti hanno pari dignità e possono esprimere liberamente il proprio parare, consapevoli del fatto che ciò che verrà preso in considerazione e discusso sono i contenuti delle proposte e non gli aspetti personali o caratteriali di chi le propone. Ciò che conta non è imporre le proprie idee, ma ascoltare i reciproci punti di vista e dimostrare per primi la propria disponibilità a cambiare parere, in un contesto dove tutti possono partecipare alla discussione sentendosi liberi di esprimere la propria opinione, in un clima di partecipazione attiva. Per queste ragioni il conflitto costruttivo è un ingrediente fondamentale nel lavoro di gruppo: consente a chi ne fa parte di ampliare la comprensione dei problemi e di sviluppare una gamma più ampia di soluzioni ed idee.

A volte la presenza di conflitti rende difficile la vita in azienda, il clima relazionale si deteriora, viene meno la coesione di gruppo, diminuisce la motivazione e aumenta il senso di impotenza: il calo dell’autostima e la demotivazione sono le reazioni più frequenti di fronte a situazioni di conflitto, latente o manifesto. Per innescare il conflitto positivo è necessario vincere l’orgoglio personale ed imparare a riconoscere il contributo di ogni singola persona, in particolare se la pensa in modo diverso dal nostro.

lunedì 12 marzo 2012

la neutralità del conflitto


Nella nostra società, così come in famiglia, a scuola o sul lavoro, assistiamo alla presenza costante del conflitto. Che sia fra nazioni, fra le parti sociali, fra datori di lavoro e dipendenti, fra marito e moglie, fra genitori e figli, fra vicini di casa o fra alunni e insegnanti, sembra che ogni contesto sia pervaso dalla conflittualità. Ma che cos’è il conflitto? Da cosa è causato?
Senza voler essere esaustivi sull’argomento, sul quale è stato scritto moltissimo ma che al contempo continua ad essere difficile ed enigmatico da sviscerare, possiamo cominciare dall’etimologia del vocabolo conflitto, che deriva dal latino conflictus, composto di cum (con) e fligere (urtare, sbattere contro), quindi un urtare/uno sbattere contro qualcosa. Questo comporta che ci siano due parti in causa, che per divergenza di opinioni, idee, interessi si scontrano fra loro.
Siamo “culturalmente” portati ad attribuire al conflitto una valenza negativa e a dare per scontato che in presenza di conflitto fra due parti una inevitabilmente vinca e l’altra perda, ma in realtà il conflitto è neutro, sta a noi polarizzarlo in positivo o negativo. Questo significa che un conflitto non deve portare necessariamente ad una situazione win-lose, dove uno vince e l’altro perde.
Il conflitto è inevitabile in presenza di diversità (caratteriali, culturali, ecc.) ma porta in sé un forte valenza relazionale, di confronto costruttivo, di ricerca di una soluzione win-win, dove tutti sono vincitori.
Generalmente riteniamo che il conflitto sia negativo e la sua assenza positiva, ma in realtà il conflitto esprime semplicemente una differenza, di conseguenza incontriamo un conflitto ogni volta che incontriamo una differenza, e più ci sarà interazione fra differenze, più ci sarà conflitto. Ma ogni conflitto, proprio in quanto differenza, è fertile e racchiude in sé un grande potenziale di crescita e di arricchimento.
Al contrario, diventa pericoloso quando non lo riconosciamo (o non vogliamo riconoscerlo) come tale, in quanto noi possiamo gestire e risolvere una situazione solo quando la prendiamo in considerazione. Di conseguenza, se neghiamo il conflitto (personale, di coppia, sociale) significa che non lo gestiamo e con il tempo finiamo per trovarci improvvisamente di fronte a qualcosa di immensamente più grande e potenzialmente più violento, e a quel punto davvero difficile da gestire (una coppia dove apparentemente va tutto a gonfie vele e poi da un giorno all’altro si lascia, un collaboratore che si licenzia, una guerriglia urbana solo per citare alcuni possibili scenari).
Il conflitto è fertile, ma non lo è più quando è negato per quieto vivere o quando si tende all’eliminazione del conflitto attraverso la negazione dell’altro. La violenza è la negazione del conflitto e rappresenta la fine dell’interazione tra le differenze.
Caricare il conflitto di valenza positiva non significa quindi annullarlo e vivere in un mondo fittizio dove tutto va bene, così come non significa nemmeno appiattirsi in un canone di uguaglianza imposta e forzata. Significa, al contrario, gestire il conflitto in modo creativo e viverlo per quello che è: un’opportunità fondamentale e preziosa per uscire dal proprio micro-mondo e imparare a considerare più punti di vista, facendo della diversità una diversità che dialoga e che cresce. Insieme.

lunedì 5 marzo 2012

85 minuti al giorno


Una recente indagine condotta dall'Organisation for Economic Co-operation and Development ha messo a confronto i dati raccolti in 21 Paesi, rilevando che in Italia una mamma lavoratrice riesce a trascorrere in media 85 minuti al giorno con il proprio bambino, contro i 124 di una mamma non occupata.
Stando ai dati forniti dall’OECD, in Italia la differenza fra uomini e donne è piuttosto marcata: i papà che lavorano trascorrono con i figli appena 40 minuti al giorno, che arrivano a 49 per quelli non occupati.
Secondo la classifica, le donne che riescono a conciliare meglio lavoro e famiglia sono le Irlandesi, con 150 minuti al giorno, seguite dalle Australiane, a quota 137 minuti. Le mamme di Usa e Canada si collocano a metà classifica (con 94 e 97 minuti rispettivamente), mentre agli ultimi posti troviamo le Ungheresi (39 minuti) e le Coreane (31 minuti).
Per arrivare a questa stima sono stati conteggiati anche i minuti dedicati ai pasti e il tempo libero nei weekend.

mercoledì 29 febbraio 2012

benessere aziendale


Si parla sempre più spesso di benessere, riferendosi con questo termine agli ambiti più svariati: dalle cure per il corpo ai percorsi spirituali. Ma che cos’è il benessere, come possiamo definirlo? 
Il benessere, come dice la parola stessa, è un ben-essere (cioè uno stare bene/sentirsi bene), ed è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti dell'essere umano. La Commissione Salute dell'Osservatorio Europeo su sistemi e politiche per la salute ha definito il benessere come "lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società". Tutti questi cinque aspetti sono fondamentali, ma è ancora più importante che siano bilanciati ed equilibrati fra loro: se è vero che è solo con una vita soddisfacente in più ambiti che accresce il nostro senso di benessere, è altrettanto vero che impegnarsi in ognuno di essi è fondamentale per fare dei passi in avanti nella giusta direzione.
Sicuramente non si può parlare di benessere senza considerare l’aspetto lavorativo, visto che passiamo al lavoro gran parte della nostra esistenza. Si comincia a sentir parlare di “benessere aziendale”, anche se non esiste ancora una definizione univoca. Parliamo infatti di un settore che solo ultimamente sta cominciando a riscuotere una certa attenzione e sul quale il dibattito è ancora ampiamente aperto. Cos’è il benessere aziendale? Il benessere aziendale è lo star bene in azienda, cioè sul posto di lavoro, ed è dato da un insieme di fattori organizzativi e relazionali che favoriscono un clima aziendale sereno, oltre che produttivo, che si riflette positivamente sia sull’azienda che sulle persone che in essa lavorano.
Sono espressione di “benessere aziendale” vari fattori riguardanti il luogo di lavoro, che possiamo cosi suddividere:
Comunicazione: circolazione delle informazioni, condivisione delle conoscenze, qualità della comunicazione, libertà di espressione
Relazioni: rapporti fra colleghi e con i superiori, rapporti con clienti e fornitori, stima reciproca, collaborazione, aiuto
Organizzazione: stile di leadership, chiarezza di ruoli e obiettivi, riunioni, meritocrazia, orario flessibile, flessibilità contrattuale, sicurezza e igiene del lavoro
Appartenenza: senso di appartenenza all’azienda e al gruppo di lavoro, orgoglio e soddisfazione, fidelizzazione
Welfare aziendale: assistenza, prevenzione medica, fondi pensione, servizi alla persona
Servizi aziendali: mensa, asilo nido, area relax, palestre, maggiordomo aziendale, trasporto
Certo, non capita tutti i giorni di trovare aziende in cui siano presenti contemporaneamente tutti questi fattori. In particolare per quanto riguarda il welfare e i servizi aziendali, allo stato attuale sono appannaggio delle aziende di grandi dimensioni. Le altri voci, invece, si possono sviluppare in qualsiasi contesto lavorativo.
In un’ottica di life-work balance è importante ricordare che il benessere aziendale è stato posto a fondamento delle strategie europee di sviluppo della persona negli ambienti di lavoro, in quanto è ritenuto indispensabile e necessario per conciliarne i due aspetti fondamentali e complementari della persona: famiglia e lavoro

lunedì 27 febbraio 2012

la storia dei due lupi

Un anziano nativo Americano stava raccontando al giovane nipote la propria vita.
 “Mi sento come se avessi due lupi che lottano dentro il mio cuore: uno è arrabbiato, invidioso e violento, l'altro è amorevole, generoso e compassionevole”, disse il vecchio.
Il nipote rimase in silenzio per qualche istante e poi gli chiese: “Nonno, quale lupo vincerà?”.
Il nonno rispose: “Quello che sceglierò di nutrire”.
Si narra che presso alcune tribù dei nativi Americani questa storia venga raccontata ai bambini per insegnare loro a ricercare il giusto atteggiamento nella vita.

martedì 21 febbraio 2012

life-work balance

Se è vero che uno dei maggiori rimpianti delle persone che si fermano ad analizzare la propria vita è quello di aver lavorato troppo, a scapito del rapporto con i figli e con il partner, è altrettanto vero che per molte famiglie il lavoro più che una scelta è una necessità, soprattutto quando il lavoro di un solo coniuge non è sufficiente a coprire le spese di un intero nucleo familiare. Così come è altrettanto vero che c’è chi è costretto a rimanere a casa perché non ha parenti nelle vicinanze e neppure lavorando potrebbe permettersi una baby-sitter o il servizio di pre e post-scuola.
Eppure il perfetto bilanciamento fra vita e lavoro, il cosiddetto life-work balance, non rappresenta soltanto qualcosa a cui ambire a livello personale e familiare: è anche un obiettivo fondamentale per il contesto sociale ed economico in cui viviamo. Una società più attenta al life-work balance sa che se la popolazione aumenta e la sua età media gradualmente diminuisce, si avranno nuove energie produttive ed un welfare più sostenibile.
Con l’introduzione di strumenti adeguati di benessere aziendale e conciliazione fra vita e lavoro (es. servizio baby-sitter o nidi aziendali, orario flessibile, flessibilità contrattuale) si possono conciliare con maggiore facilità la scelta di fare figli e quella di lavorare, senza che l’una escluda l’altra.
Un buon equilibrio life-work aumenta la soddisfazione personale e riduce lo stress, con grande beneficio della persona (più felice ed appagata), della sua famiglia (rapporti familiari più sereni e distesi) e anche dell’azienda per cui lavora (collaboratori motivati e fidelizzati).
Nelle aziende dove il titolare è riuscito a superare lo scetticismo iniziale (“se concedo un dito, poi si prendono il braccio…”, “già lavorano poco col full-time, figuriamo col part-time…” e così via) sì è notato come il venire incontro alle esigenze dei propri collaboratori e capire appieno le loro esigenze, non solo lavorative, ma anche personali e familiari, ha rafforzato la fiducia e migliorato il rapporto azienda-collaboratore, incrementando notevolmente anche la produzione: perché se una persona sta meglio ed è più soddisfatta, anche l’azienda sta meglio e produce di più. 

venerdì 17 febbraio 2012

i cinque maggiori rimpianti

Bronnie Ware è un’infermiera australiana specializzata in terapie palliative. Il suo lavoro le ha insegnato a non sottovalutare mai la capacità di crescita e cambiamento della persona. Ad ognuna delle persone che ha assistito ha chiesto quale fosse il suo più grande rimpianto nella vita, le cose che avrebbe cambiato potendo tornare indietro. Ha raccolto tutte le dichiarazioni in un libro intitolato “The Top Five Regrets of the Dying” (I cinque maggiori rimpianti delle persone in punto di morte) che possiamo così riassumere:

  1. Vorrei avere avuto il coraggio di vivere seguendo le mie inclinazioni, non la vita che gli altri si aspettavano da me
  2. Vorrei non aver lavorato così tanto, mi sono perso l’infanzia dei miei figli e la compagnia del partner
  3. Vorrei avere avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti
  4. Vorrei essere rimasto in contatto con i  miei amici, aver dedicato loro più tempo
  5. Vorrei aver permesso a me stesso di essere più felice
Secondo la Ware, la paura del cambiamento li ha portati a credere e a fare credere agli altri di essere contenti, ma una volta in punto di morte quello che pensano gli altri non interessa più… Quello che conta è riuscire a riappropriarsi, anche se per poco, della propria vita e sorridere di nuovo.