Nella nostra società, così come in famiglia, a scuola o sul lavoro, assistiamo alla presenza costante del conflitto. Che sia fra nazioni, fra le parti sociali, fra datori di lavoro e dipendenti, fra marito e moglie, fra genitori e figli, fra vicini di casa o fra alunni e insegnanti, sembra che ogni contesto sia pervaso dalla conflittualità. Ma che cos’è il conflitto? Da cosa è causato?
Senza voler essere esaustivi sull’argomento, sul quale è stato scritto moltissimo ma che al contempo continua ad essere difficile ed enigmatico da sviscerare, possiamo cominciare dall’etimologia del vocabolo conflitto, che deriva dal latino conflictus, composto di cum (con) e fligere (urtare, sbattere contro), quindi un urtare/uno sbattere contro qualcosa. Questo comporta che ci siano due parti in causa, che per divergenza di opinioni, idee, interessi si scontrano fra loro.
Siamo “culturalmente” portati ad attribuire al conflitto una valenza negativa e a dare per scontato che in presenza di conflitto fra due parti una inevitabilmente vinca e l’altra perda, ma in realtà il conflitto è neutro, sta a noi polarizzarlo in positivo o negativo. Questo significa che un conflitto non deve portare necessariamente ad una situazione win-lose, dove uno vince e l’altro perde.
Il conflitto è inevitabile in presenza di diversità (caratteriali, culturali, ecc.) ma porta in sé un forte valenza relazionale, di confronto costruttivo, di ricerca di una soluzione win-win, dove tutti sono vincitori.
Generalmente riteniamo che il conflitto sia negativo e la sua assenza positiva, ma in realtà il conflitto esprime semplicemente una differenza, di conseguenza incontriamo un conflitto ogni volta che incontriamo una differenza, e più ci sarà interazione fra differenze, più ci sarà conflitto. Ma ogni conflitto, proprio in quanto differenza, è fertile e racchiude in sé un grande potenziale di crescita e di arricchimento.
Al contrario, diventa pericoloso quando non lo riconosciamo (o non vogliamo riconoscerlo) come tale, in quanto noi possiamo gestire e risolvere una situazione solo quando la prendiamo in considerazione. Di conseguenza, se neghiamo il conflitto (personale, di coppia, sociale) significa che non lo gestiamo e con il tempo finiamo per trovarci improvvisamente di fronte a qualcosa di immensamente più grande e potenzialmente più violento, e a quel punto davvero difficile da gestire (una coppia dove apparentemente va tutto a gonfie vele e poi da un giorno all’altro si lascia, un collaboratore che si licenzia, una guerriglia urbana solo per citare alcuni possibili scenari).
Il conflitto è fertile, ma non lo è più quando è negato per quieto vivere o quando si tende all’eliminazione del conflitto attraverso la negazione dell’altro. La violenza è la negazione del conflitto e rappresenta la fine dell’interazione tra le differenze.
Caricare il conflitto di valenza positiva non significa quindi annullarlo e vivere in un mondo fittizio dove tutto va bene, così come non significa nemmeno appiattirsi in un canone di uguaglianza imposta e forzata. Significa, al contrario, gestire il conflitto in modo creativo e viverlo per quello che è: un’opportunità fondamentale e preziosa per uscire dal proprio micro-mondo e imparare a considerare più punti di vista, facendo della diversità una diversità che dialoga e che cresce. Insieme.